SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.178 DEL 01/10/14

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.178 DEL 01/10/14

 

INDICE

  • Visite mediche a seguito di assenza lunga per malattia
  • Tutto quello che avreste voluto sapere sull’articolo 18 (e che nessuno vi ha detto perché non gli conveniva)
  • L’abrogazione dell’articolo 18 indebolisce la legalità
  • Decreto 81/08: il datore di lavoro e l’obbligo di informazione
  • Attività esterne: gli incidenti stradali sono un rischio lavorativo
  • Come fare la valutazione del rischio incendio nei luoghi di lavoro

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!

sp-mail@libero.it

https://www.facebook.com/profile.php?id=100007166866156

 

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VISITE MEDICHE A SEGUITO DI ASSENZA LUNGA PER MALATTIA

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.54

 

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti del lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

 

 

QUESITO

 

Ciao Marco,

ti volevo porre un quesito relativo alle visite mediche.

Ho avuto un infortunio sul lavoro che mi ha costretto a stare a casa per più di due mesi.

Lunedì scorso ho ripreso il lavoro e dopo due giorni ho fatto la visita medica col medico competente come da normativa per chi fa più di 60 giorni di assenza, per attestarne l’idoneità alla mansione.

Il medico non mi ha né visitato, né ha voluto vedere la mia documentazione medica e oltretutto stava scrivendo che io ero reduce da un’altra tipologia di infortunio rispetto a quello che ho subito, per cui ho dovuto correggerlo.

Inoltre non mi ha rilasciato nessun documento e ha asserito che la visita medica fosse poco più che una proforma?

E’ vero che io sto bene e che il mio medico curante, assieme al fisioterapista che mi ha seguito e assieme all’ortopedico, ha deciso che potevo riprendere il lavoro.

Ma il comportamento del medico del lavoro rientra nella logica (e nella norma) o è stato superficiale?

Grazie mille.

 

 

RISPOSTA

 

Il medico competente si è comportato con enorme superficialità e dimostrando estrema ignoranza della normativa in materia (che lui, come medico competente, dovrebbe conoscere a memoria…).

Già il fatto che non abbia voluto né visitarti, né vedere la tua documentazione e che abbia confuso un tipo di lesione con un’altra ben diversa la dice lunga sulla sua infima professionalità.

 

La visita dopo i 60 giorni di assenza serve proprio al medico competente per valutare se dopo un’assenza così lunga il lavoratore sia idoneo a riprendere la propria mansione, che comporta dei rischi specifici rispetto alla vita normale. Ciò vuol dire che se il medico curante (o anche lo specialista) ritiene che tu stia bene, ciò non vuol dire che tu sia idoneo fisicamente a svolgere una mansione lavorativa che può comportare dei rischi anche gravi relativamente alla tua trascorsa patologia, rischi che solo il medico competente può conoscere nel dettaglio.

 

Al di là di queste considerazioni, valgono per il medico competente gli obblighi previsti dal D.Lgs.81/08 (Testo unico sulla salute e sicurezza, “Decreto”).

 

Il medico competente è obbligato dal Decreto a eseguire la sorveglianza sanitaria secondo quanto previsto dal Decreto stesso, ciò è sancito dall’articolo 25, comma 1, lettera b), secondo il quale:

Il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati”.

 

Tra l’altro il medico competente è obbligato a informare il lavoratore dei motivi per cui lo sottopone a sorveglianza sanitaria e sui risultati della stessa, secondo quanto disposto dall’articolo 25, comma 1, lettere g) e h) del Decreto:

Il medico competente

  • fornisce informazioni ai lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria cui sono sottoposti […];
  • informa ogni lavoratore interessato dei risultati della sorveglianza sanitaria […]”.

 

Il mancato adempimento di tali obblighi è sanzionato dall’articolo 58, comma 1, lettera b) con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda da 300 a 1.200 euro

 

Gli accertamenti della sorveglianza sanitaria previsti dal Decreto comprendono anche quelli fissati dal comma 2, lettera e-ter):

visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.

Lo scopo di tali accertamenti è, come detto prima, verificare se il lavoratore, dopo un’assenza per motivi di salute molto lunga, sia fisicamente idoneo a riprendere il lavoro e ad affrontare i rischi della sua mansione.

 

Il risultato di tutti gli accertamenti previsti dall’articolo 41 comma 2 e quindi anche di quelli successivi a un’assenza di più di sessanta giorni devono essere formalmente inseriti dal medico competente nella “cartella sanitaria” del lavoratore, che è il documento sul quale deve essere annotata la “vita clinica” di ogni lavoratore, come stabilito dall’articolo 41, comma 5:

Gli esiti della visita medica devono essere allegati alla cartella sanitaria e di rischio”.

 

A seguito di ogni visita medica, compresa (ripeto) anche quella per assenza prolungata, inoltre il medico competente deve esprimere il proprio giudizio sulla idoneità o meno del lavoratore a svolgere la sua mansione lavorativa, in funzione dei rischi a cui è sottoposto.

Quanto sopra a seguito di quanto stabilito dall’articolo 41, comma 6 del decreto:

Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche […], esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:

  1. a) idoneità;
  2. b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
  3. c) inidoneità temporanea;
  4. d) inidoneità permanente”.

 

Il giudizio di idoneità o meno alla mansione stilato dal medico competente a seguito della visita medica deve essere poi formalizzato al lavoratore e al datore di lavoro, in modo da intraprendere, se necessario, le conseguenti misure di prevenzione (sospensione dalla mansione, spostamento ad altra mansione, ecc.).

 

Ciò è stabilito dall’articolo 41, comma 6-bis del Decreto:

Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”.

La mancata annotazione dei risultati della visita medica sulla cartella sanitaria e la mancata comunicazione degli stessi al lavoratore e al datore di lavoro sono sanzionati dall’articolo 58, comma 1, lettera e) del decreto con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 4.000 euro.

 

In conclusione quindi, non soltanto il tuo medico competente si è comportato con enorme leggerezza e superficialità, affermando che una visita obbligatoria per legge fosse solo “poco più che una proforma”, ma ha anche commesso dei reati penali sanzionabili, come sopra detto, dalla normativa vigente.

 

Marco

 

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TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULL’ARTICOLO 18 (E CHE NESSUNO VI HA DETTO PERCHE’ NON GLI CONVENIVA)

 

Da: Clash City Workers

http://clashcityworkers.org/

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Ci stanno provando ancora una volta. Quello che non riuscì a fare Berlusconi nel 2002 prova adesso a farlo Renzi.

Approfittando della “crisi”, del consenso al Governo di tutte le forze politiche, del momento di smarrimento in larga parte della popolazione italiana, Renzi cerca di abolire l’articolo 18.

Contro questo attacco, che sta andando avanti da mesi e che si concretizzerà a breve nella “riforma del mercato del lavoro” che il Governo vuole chiudere a tutti i costi, dobbiamo mobilitarci ad ogni costo. Ne va del nostro futuro e della nostra dignità. Ma per opporci con efficacia dobbiamo capire bene qual è la posta in gioco. Infatti sia da parte dei padroni che dei sindacati confederali è stata fatta molta disinformazione sul tema. Vediamo bene perché e come stanno davvero le cose.

 

PARTIAMO DALL’INIZIO: COSA E’ L’ARTICOLO 18?

L’articolo 18 è un articolo dello “Statuto dei lavoratori”, la Legge che regola le norme sul lavoro, approvata nel 1970, in un momento in cui i lavoratori erano abbastanza forti da imporre ai padroni ed allo Stato il rispetto di alcuni loro diritti. L’articolo 18 regola la “reintegrazione sul posto di lavoro”: nelle aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo (cioè ingiustificato, effettuato senza comunicazione dei motivi o per discriminazione), si può fare causa al proprio datore di lavoro. Se viene appurato che si è stati licenziati senza “giusta causa”, l’articolo dispone che il lavoratore sia reintegrato nel posto di lavoro e recuperi le mensilità perse (cioè i soldi dello stipendio che avrebbe ricevuto se non fosse stato licenziato). In alternativa allo stesso lavoratore è concessa la facoltà di optare per il risarcimento del danno (mensilità perse più un indennizzo di 15 mesi). Questa possibilità è stata pensata per consentire al lavoratore di evitare di dover tornare in un ambiente lavorativo che potrebbe essere ostile.

 

QUANTI LAVORATORI TUTELA?

Al momento attuale l’articolo 18 copre circa il 65,5% dei lavoratori dipendenti. Ovvero, su quasi 12 milioni di operai e impiegati presenti in Italia, quasi 7,8 milioni possono beneficiare di questa tutela. E’ ancora poco, se si pensa che altri milioni di lavoratori (in particolare immigrati e giovani) non beneficiano di questa tutela, perché lavorando a nero, con contratti precari, ricattati fino a firmare le “dimissioni in bianco” al momento dell’assunzione, sono esposti all’arbitrio del datore di lavoro che li licenzia quando vuole. Ma è una misura importante, di civiltà, che riguarda la maggior parte dei lavoratori italiani e dovrebbe semmai essere estesa a quelli che non ce l’hanno, perché ancora più sfruttati.

 

LE MENZOGNE CHE CI STANNO RACCONTANDO

In questi mesi padroni, giornalisti interessati e politici hanno sostenuto che il problema dell’Italia è la “rigidità”, ovvero che non si può licenziare facilmente. Fermo restando che la crisi italiana dipende sia da una crisi del capitalismo a livello internazionale, sia da altri motivi (corruzione e cattiva gestione del denaro pubblico, incapacità del nostro sistema di competere, speculazioni, ecc.), e non è certo responsabilità dei lavoratori, questa è una vera e propria menzogna! Il licenziamento per “motivi economici” esiste dal 1966. Un’azienda in crisi può sempre licenziare il lavoratore. Anche un’azienda che tramite l’acquisto di macchinari ha bisogno di meno lavoratori, li può licenziare.

Si chiama “giustificato motivo oggettivo”, ma deve essere dimostrato dal datore di lavoro davanti ad un giudice.

Questo per evitare imbrogli delle aziende, già frequentissimi (“finte” crisi, cessione di rami di impresa, “scatole cinesi” ecc.).

Esiste poi anche il “giustificato motivo soggettivo”, ovvero la possibilità del padrone di licenziare un lavoratore perché assenteista (cioè se non si presenta al lavoro senza fondati motivi medici) o insubordinato (se si rifiuta sistematicamente di seguire le mansioni per cui è stato assunto). Quindi i datori di lavoro già hanno tutti gli strumenti di cui dispongono per fare funzionare bene le proprie imprese, o no?

 

IL NON-DETTO DEI PADRONI E DI CGIL-CISL-UIL: PERCHE’ VOGLIONO TOGLIERE L’ARTICOLO 18?

Il Governo Renzi è espressione del grande padronato italiano e va a braccetto con Confindustria. Tutti questi soggetti premono per cancellare l’articolo 18 dicendo che il “mercato del lavoro” va riformato perché “non funziona” e dicono che se si fanno queste riforme l’Italia ricomincia a crescere. Questa affermazione viene ripetuta ovunque, ma viene sempre lasciata nel vago, non si spiega mai quale sia il meccanismo che dovrebbe portare alla crescita. Nel frattempo cercano di mettere contro i lavoratori “non tutelati” e i “tutelati” come se fosse colpa dei “vecchi” lavoratori se i “giovani” stanno così male.

Da parte loro i sindacati dicono che “non è vero”, che levare l’articolo 18 non serve alla crescita, salvo poi incontrare ogni due secondi il Governo e affermare che sono disposti a trattare. Non dicono così ai loro iscritti l’amara verità:

  • che le politiche prima di concertazione poi di vera e propria sottomissione di cui sono stati complici negli ultimi decenni hanno causato questa debolezza dei lavoratori nel rivendicare i propri diritti;
  • che nel sistema capitalistico il lavoro è esattamente come una merce: una merce di cui oggi, in tempi di crisi e disoccupazione, c’è abbondante offerta; quindi questa merce, per essere acquistata dai capitalisti, deve o costare di meno (cioè il lavoratore deve essere pagato meno) o essere più produttiva (cioè il lavoratore deve lavorare più intensivamente, secondo ritmi più veloci).

In questo senso il primo motivo per cui i padroni vogliono abolire l’articolo 18 è tutto materiale. La sua abolizione inciderebbe tantissimo sulla produttività. Se posso licenziarti, quando diventi vecchio o non produci come io ti dico di fare, ti ricatterò: se non vuoi essere cacciato accetterai qualsiasi condizione. Anche perché la maggior parte dei lavori di oggi non necessita di chissà quale formazione particolare (sia in fabbrica che negli uffici, che nella logistica o in un call center). E la gente è disposta a tutto pur di lavorare. L’unico limite oggi trovato dai padroni è nella Contrattazione Nazionale, nelle forme del diritto e nelle leggi strappate quando i lavoratori erano più forti. Ma quello che è stato fatto in questi anni sui giovani che entravano nel mercato del lavoro andava già nel senso di abbassare il costo del lavoro per le aziende, e proprio con la complicità dei sindacati!

I padroni infatti si muovono su tutto il pianeta per cercare il posto dove si possano pagare di meno i lavoratori e farli lavorare di più. Il costo del lavoro è per loro la prima spesa che incide sui profitti: tagliarla diventa essenziale, anche a costo di andare fino in Cina! Fra l’altro il costo del lavoro non è come quello delle macchine, che si ammortizza nel tempo: è sempre un costo vivo, che ogni mese va retribuito. Renzi, Confindustria e gli altri borghesi hanno ragione a dire che bisogna “levare le rigidità” per attrarre investimenti e dare lavoro. Solo che quello che non dicono è che il prezzo da pagare è lo schiavismo! Una volta che in giro ci sono gli schiavi, pagati nulla e cacciati fuori in qualsiasi momento, non sorprende affatto che qualche indice di occupazione possa aumentare!

Oggi le controversie legate all’articolo 18 non sono molte. Secondo gli ultimi dati forniti dall’ISTAT, riferiti al 2006, parliamo di circa 8.651, di cui circa la metà (dopo anni di spese) si concludevano a favore del lavoratore, il quale peraltro non rientrava quasi mai in fabbrica, perché sapeva che il datore di lavoro avrebbe cercato di ostacolarlo in ogni modo. Ma se l’articolo 18 venisse abolito, gli scrupoli dei padroni ad imbarcarsi in una lunga causa e in spese di avvocati scomparirebbero subito.

 

L’ALTRO MOTIVO: QUELLO IDEOLOGICO

Esiste anche un altro motivo per cui si vuole abolire l’articolo 18, ed è ideologico. Il Governo e la borghesia italiana vogliono dimostrare all’Unione europea ed ai capitalisti stranieri che in Italia si può venire a investire, perché oramai i lavoratori non contano nulla, non fanno più paura, sono più mansueti delle pecore. Vogliono anche intimorirci per le battaglie future, e dare ai lavoratori una sonora sconfitta su una delle poche mobilitazioni vincenti di questi anni, quella del 2002. Per loro è un totem da distruggere, che ha un enorme valore simbolico. E per farlo sono disposti a mobilitare ogni risorsa, a pagare opinionisti, politici, sindacalisti.

Inoltre l’abolizione dell’articolo 18 risponde ad un’altra necessità padronale: eliminare dalle aziende ogni personalità ribelle e ogni avanguardia di lotta. Il messaggio deve essere semplice: appena rompi le palle, su orari, condizioni di lavoro, diritti, ecc., sei fuori. Al padrone basta buttare fuori dieci persone pagando un indennizzo per avere una fabbrica pacificata e disciplinata.

 

MORALE DELLA FAVOLA…

La morale della favola è che inaccettabile assumere come piano di discussione quello dei padroni. Quando si parla di “crescita” dobbiamo sempre intendere “profitto dei padroni attraverso la crescita dello sfruttamento”. Una volta assunto questo piano, infatti, hanno sempre ragione loro. Questo è stato ed è ancora l’errore dei sindacati confederali, che ormai non riescono più a strappare neanche le briciole! Se ci si mette su questa strada, di compromessi al ribasso e di inciuci, l’unico risultato è la sconfitta ed un progressivo imbarbarimento. Uno scenario in cui saremo tutti in guerra contro tutti, e solo per sopravvivere.

 

CI SONO ALTRE STRADE!

Ora, posto che gli interessi di capitale e lavoro sono sempre inconciliabili, e che i margini di ogni ipotesi di “riforma” di questo sistema si stanno esaurendo (infatti con i patti di stabilità, l’impossibilità di fare politiche sociali ed espansive, il commissariamento dell’UE, che politiche alternative si possono mai fare?) i padroni ci stanno dicendo un sacco di stronzate.

Non siamo (come ci vogliono far credere) allo “stadio finale”, non è vero che o facciamo queste riforme o l’Italia è destinata a fallire. L’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo, che ha enormi rendite e patrimoni familiari, che ha un’evasione fiscale di 140 miliardi l’anno, che ha tantissime storture che possono essere corrette senza toccare sempre i soliti. Se il Governo avesse voluto stimolare la “crescita” senza necessariamente colpire sempre i lavoratori, avrebbe potuto, per esempio, incominciare dal recupero di parte dell’evasione (senza nemmeno darla ai lavoratori o spenderla in misure sociali!), ma usandola per ridurre il cuneo fiscale, cioè quella parte di soldi che le imprese versano in tasse. Il lavoratore avrebbe avuto così la stessa busta paga e gli stessi diritti, l’imprenditore avrebbe guadagnato invece margini più alti e sarebbe stato incentivato ad investire; non è un caso che questa proposta venga anche dagli ambiti liberali più progressisti!

Certo, alla lunga anche questa misura non risolverebbe nulla, come dimostrano i paesi capitalisticamente “avanzati”: alla fine si deve sempre cercare di sfruttare al massimo il lavoro e quindi ricomincerebbe la competizione verso il basso. Ma quello che è certo è che oggi le strade non sono chiuse, non è vero che “o si fa così o altrimenti siamo tutti morti”. Semmai il problema è che i padroni e i politici non vogliono puntare a recuperare l’evasione tassando, commercianti, palazzinari, ordini professionali ecc., perché temono di perdere quel consenso. Sanno che questi ceti arroganti, spesso mafiosi, sono loro “fratelli” e sono anche pronti a difendere i loro privilegi in ogni modo.

“Esagerare” nel recupero dell’evasione creerebbe un sovvertimento ingestibile. Meglio dare altre mazzate al proletariato, no?

Insomma, l’esperimento per il Governo e Confindustria ora è quello di vedere: quanto li riusciamo a fottere prima che si ribellino? Fino adesso sembra che gli stia andando bene…

 

PERCHÉ BISOGNA MOBILITARSI?

Se come dicevamo prima ci sono ancora dei margini, cioè non è vero che ci dobbiamo per forza “sacrificare” noi, il dato da trarne è che bisogna subito impegnarsi. Questa è una certezza: più ci impegneremo, più gli daremo filo da torcere, meno perderemo. Devono recuperare produttività, devono attrarre investimenti, ma, se riusciamo a mettere un argine, i soldi per fare queste cose li andranno a prendere altrove.

Ancora una volta la stessa borghesia ci insegna come fare: quando a rischio ci sono i suoi interessi, si mobilita unitariamente, in maniera fortissima, a livello internazionale, pensando al suo interesse complessivo, come classe.

Anche noi dobbiamo fare così: difendere tutto il salario (sia quello diretto, che quello indiretto, cioè i servizi sociali, che quello differito, cioè le pensioni) e tutti i diritti che ci sono rimasti. Non per “conservarli” per pochi, ma per allargarli anche a chi non ne ha! Questo vuol dire pensare a “noi” come classe: mettere davanti a tutto gli interessi collettivi e non della propria generazione, della singola categoria, compartimento, azienda o addirittura del singolo individuo!

 

COME FARLO?

E’ evidente che non possiamo aspettare i tempi, le concertazioni e le finte partenze dei sindacati o “subire” le scadenze rituali. Dobbiamo iniziare da subito ad organizzarci, direttamente, indipendentemente dalle appartenenze.

Dobbiamo stare in tutte le mobilitazioni in difesa dell’articolo 18, appoggiare tutti i momenti di possibile ricomposizione. Nonostante la riforma dell’articolo 18 sia solo UNO SOLO DEGLI ASPETTI della riforma del lavoro, per l’importanza che riveste esso è LA questione su cui tutti dovremmo lavorare nelle prossime settimane. Anche perché il Governo ci detta i tempi: un mese e i provvedimenti saranno approvati…

 

NEL NOSTRO PICCOLO…

Secondo noi una delle prime cose da fare è prendere parola collettivamente, come classe. Avete fatto caso che tutti (padroni, economisti, giornalisti, politici, dirigenti sindacali) stanno parlando dell’articolo 18, tranne noi, gli unici che subiranno queste misure?

Non solo: in questi mesi la voce dei lavoratori è stata fatta sparire. Il nostro primo compito è di farla sentire, di portarla nel dibattito pubblico. Sia per fare arrivare il messaggio alla nostra controparte, per dirgli che non siamo addormentati e cercare di spaventarli un po’ (in fondo sono codardi…). Sia per fare pressione sulle dirigenze locali dei sindacati e fargli capire che sull’articolo 18 devono fare casino. Se iniziamo a dire chiaro e tondo quello che ne pensiamo, altri lavoratori prenderanno coraggio e ci seguiranno!

Anche per questo vogliamo mettere su (in brevissimo tempo) una videoinchiesta che faccia sentire la voce dei lavoratori. Perciò chiediamo a tutti voi semplicemente di farvi intervistare. Dovrete rispondere ad una semplice domanda: cosa ne pensate dell’attacco all’articolo 18? Potete anche mandarci brevi messaggi tramite mail o su FB, noi pubblicheremo tutto. Una volta terminata questa videoinchiesta, che speriamo sia ripresa in tutta Italia, la faremo girare ovunque, su tutti i canali che troviamo, per rompere questo muro di silenzio. Per mettere in campo con tutti quelli che ci stanno una serie di iniziative di confronto e di lotta che sappiano coinvolgere la maggior parte della popolazione.

 

Presto, perché di tempo ce n’è rimasto poco…

Ma li abbiamo sconfitti già una volta possiamo farlo ancora!

 

EAT THE RICH – MAGNAMMECE O’ PADRONE!

COLLETTIVO AUTORGANIZZATO UNIVERSITARIO NAPOLI

CLASH CITY WORKERS – LAVORATORI DELLA METROPOLI IN LOTTA

 

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L’ABROGAZIONE DELL’ARTICOLO 18 INDEBOLISCE LA LEGALITA’

 

Da: Articolo 21

http://www.articolo21.org

 

di Domenico Gallo

29 settembre 2014

 

Il progetto di abolire le tutele previste dall’articolo 18 non rappresenta un’innovazione che apre la strada al futuro, ma una regressione a un’epoca in cui le relazioni industriali erano regolate esclusivamente dai rapporti di forza a prescindere dal diritto.

Di fronte alle mistificazioni con le quali si tenta di ingannare l’opinione pubblica, occorre precisare che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non interviene sulla libertà di licenziamento, che resta regolata dal principio della giusta causa o del giustificato motivo; si tratta di una norma-sanzione che reprime il licenziamento ingiustificato, cioè illegale, eliminandone gli effetti.

 

L’abolizione dell’articolo 18, quindi, non incide sulla libertà di licenziamento (che resta regolata dalla legge), bensì sulla repressione del licenziamento illegale, consentendo ai forti e ai furbi di sottrarsi all’osservanza delle regole. Tale sanzione rappresenta l’architrave per la tenuta di tutto l’edificio dei diritti, sancito dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, che tutela la dignità del cittadino lavoratore nei confronti del potere privato.

 

Infatti da lungo tempo la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione hanno rilevato che i diritti nascenti dal rapporto di lavoro possono essere esercitati, in costanza di rapporto, soltanto in presenza di un regime di stabilità reale. Il riconoscimento della dignità del cittadino lavoratore impone che sia assicurata la tutela contro il licenziamento ingiustificato come richiede l’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

 

La Costituzione italiana assicura il godimento dei diritti di libertà a tutti e garantisce al cittadino lavoratore una serie di diritti (retribuzione adeguata, durata massima della giornata lavorativa, riposo settimanale, ferie annuali e retribuite) che impediscono che la prestazione di lavoro possa essere ridotta al rango di una semplice merce compravenduta sul mercato dei fattori produttivi.

Allo Statuto dei diritti dei lavoratori è stata riconosciuta la funzione di aver fatto valere la Costituzione anche nei confronti del potere privato introducendola in un vasto territorio da cui era stata rigorosamente esclusa.

 

L’eliminazione della norma che sancisce la tenuta dello Statuto, consegna ai poteri privati la libertà di sottrarsi all’osservanza delle leggi e dei principi costituzionali e trasforma la prestazione di lavoro in una merce, consentendo che venga calpestata al massimo grado la dignità dei cittadini-lavoratori, e insidiata la libertà delle organizzazioni sindacali sgradite al potere privato, che potranno essere messe fuori dai cancelli della fabbrica, sbarazzandosi dei lavoratori sindacalizzati, come avveniva negli anni 50 del secolo scorso.

Che non si tratti di un pericolo puramente teorico è dimostrato dall’esperienza di questi ultimi anni che ci hanno fatto assistere al tentativo di un potere privato di sbarazzarsi del più forte sindacato metalmeccanico europeo; tentativo che è stato bloccato soltanto per l’intervento del potere giudiziario, che adesso si cerca disarmare, smantellando le sanzioni per i comportamenti illegali.

 

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DECRETO 81/08: IL DATORE DI LAVORO E L’OBBLIGO DI INFORMAZIONE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

 

04 settembre 2014

di Rolando Dubini

Avvocato in Milano

 

L’informazione è il complesso delle attività dirette a fornire conoscenze per identificare, ridurre e gestire i rischi in ambiente di lavoro. Riflessioni e indicazioni sugli obblighi tratte da normativa e giurisprudenza.

 

L’informazione è un processo di comunicazione/ricezione di notizie e concetti: “informazione” è il complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro (articolo 2, comma 1, lettera bb) del D.Lgs.81/08).

Informare significa fornire notizie ritenute utili o funzionali; in termini più vicini alla terminologia degli esperti in salute, sicurezza e igiene del lavoro si può parlare di informazione come “trasferimento mirato a tutti i soggetti interessati di notizie e contenuti di carattere comportamentale, procedurale, concettuale, in aree tematiche tecnologiche, tecniche, scientifiche e legislative, utili ad attivare il complesso processo di prevenzione degli infortuni e delle tecnopatie”.

 

L’informazione “si sostanzia in un processo di trasferimento, dal datore di lavoro al lavoratore, di tutte quelle nozioni che siano necessarie per identificare e gestire i rischi e deve assicurare al lavoratore non solo una conoscenza dei rischi specifici connessi alla propria mansione, ma anche una consapevolezza generale del ciclo produttivo in cui lo stesso opera, sul presupposto che solo in tal modo egli possa effettuare scelte ed attuare comportamenti che non compromettano la sicurezza propria o altrui”.

 

Gli strumenti attraverso i quali può essere fornita l’informazione ai lavoratori sono i più vari: depliant, video, assemblee generali, volantini, incontri di piccolo gruppo, lezioni in aula; avvisi in bacheca, assemblee di reparto ecc.

Deve altresì essere predisposto un programma delle attività di informazione e modalità “dedicate” per i nuovi assunti.

L’obbligo di informazione potrà dirsi assolto mediante la consegna al lavoratore di un documento cartaceo solo quando vi sia la prova che lo stesso lo abbia effettivamente ricevuto e purché in quello non siano contenute solo indicazioni generiche (vedi Sentenza n.15618 del 19/04/11 della Cassazione Penale).

 

L’articolo 18, comma 3-bis del D.Lgs.81/08 prevede che “il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19 (Obblighi del preposto), 20 (Obblighi dei lavoratori), ferma restando l’esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti”.

Si tratta di un obbligo di controllo che ha una fortissima correlazione con l’informazione, la formazione e l’ addestramento dei lavoratori, poiché l’omissione di queste attività fondamentali è automaticamente, ipso facto, violazione dell’obbligo di vigilanza.

 

Le informazioni devono essere fornite ai lavoratori in forma semplice ed immediata, nella lingua loro facilmente comprensibile e facendo anche uso di immagini e figure; questo risulta particolarmente utile per lavoratori di bassa scolarizzazione o stranieri (articolo 36, comma 4 del D.Lgs.81/08: “Il contenuto della informazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le relative conoscenze. Ove la informazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione della lingua utilizzata nel percorso informativo”).

Spesso per ottemperare a tale obbligo si ricorre alla consegna di opuscoli illustrati controfirmati per ricevuta dai lavoratori stessi; tuttavia secondo la giurisprudenza questo modo di operare non è sufficiente in quanto l’informazione deve essere accompagnata sempre da un’opera di sensibilizzazione e da spiegazioni sui contenuti del materiale distribuito (vedi Sentenza n.6486 del 03/06/95 della Cassazione Penale).

 

Inoltre, afferma la Cassazione, “lo specifico onere di informazione e di assiduo controllo, se è necessario nei confronti dei dipendenti dell’impresa, si impone a maggior ragione nei confronti di coloro che prestino lavoro alle dipendenze di altri e vengano per la prima volta a contatto con un ambiente dalle strutture a loro non familiari e che perciò possono riservare insidie non note” (Sentenza n.6486 del 03/06/95 della Cassazione Penale).

“Si ravvisa un profilo di colpa generica del datore di lavoro nell’aver assunto per un compito specifico e particolarmente rischioso due giovani inesperti dei rischi connessi al processo di lavorazione loro demandato, senza nemmeno compiere la più elementare indagine sulla loro capacità di svolgerlo nelle prudenti condizioni di assenza di pericolo” (Sentenza n.14875 del 26/03/04 della Cassazione Penale).

In tema di informazione dei lavoratori, “il datore di lavoro ha il preciso dovere non di limitarsi ad assolvere formalmente il compito di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma di attivarsi e controllare sino alla pedanteria che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro; né egli può disinteressarsi dell’ordinario svolgimento del lavoro e dei rischi comuni, sul presupposto di una loro evidenza che li rende percepibili direttamente da parte del lavoratore” (Sentenza n.4870 del 06/02/04 e Sentenza n.1225 del 18/01/11 della Cassazione Penale)

La Cassazione ha confermato la condanna di un datore di lavoro che non aveva informato il lavoratore sul fatto che l’uso di una certa macchina in un determinato modo e per compiere certe lavorazioni era sconsigliato dallo stesso produttore nel manuale delle istruzioni (vedi Sentenza n.40582 del 20/10/09 della Cassazione Penale).

L’obbligo di informare i dipendenti circa i rischi specifici per la sicurezza e la salute in relazione all’attività svolta deve essere adempiuto non solo attraverso la esplicitazione di divieti, ma soprattutto con l’indicazione delle conseguenze che determinate modalità di lavoro possono comportare (vedi Sentenza n.34771 del 27/09/10 della Cassazione Penale): è plausibile, infatti, che la prescrizione di protocolli comportamentali risulti inutile qualora il lavoratore non sia anche reso edotto delle conseguenze cui può condurre l’errata esecuzione di una certa attività rischiosa.

Obblighi, come si vede, assai precisi e definiti, che richiedono una chiara consapevolezza della loro importanza, e della necessità di organizzare adeguatamente, programmare e pianificare accuratamente la formazione e l’informazione dei lavoratori.

Perciò non adempie all’obbligo di cui agli articoli 36 e 37 del D.Lgs.81/08 di informare e formare i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e dei modi di prevenire i danni derivati dai rischi stessi, “il datore di lavoro che si limiti alla pur necessaria affissione di estratti delle norme di igiene del lavoro e alla applicazione, sugli impianti, di generici simboli di pericolo. L’obbligo di informazione, avendo a oggetto la specificità dei rischi e i modi concreti di prevenire i conseguenti danni, deve essere attuato specificamente mediante: l’indicazione dettagliata delle sostanze chimiche contenute nei singoli impianti; l’indicazione dei pericoli per la salute derivanti distintamente da inalazione, contatto o ingestione delle sostanze stesse; l’informazione sui rimedi per fronteggiare l’intossicazione; le istruzioni in ordine ai tempi e ai modi di utilizzo dei diversi mezzi personali di protezione messi a disposizione dei lavoratori” (Pretura di Brescia 12/10/83).

Peraltro l’ignoranza da parte del datore di lavoro dei rischi ambientali o dei modi di prevenire i relativi danni “non vale a giustificare l’inadempimento agli obblighi di prevenzione e informazione, giacché dall’ articolo 2087 del Codice Civile si desume per l’imprenditore l’obbligo strumentale di acquisire le necessarie cognizioni tecniche e di aggiornarsi sugli sviluppi delle conoscenze circa gli aspetti rischiosi del lavoro e circa le misure di sicurezza da adottare” (Pretura di Torino 14/07/83).

In tal senso è stato pure stabilito che “sussiste la responsabilità di un legale rappresentante per aver cagionato lesioni personali gravi a un proprio dipendente, in particolare, per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza e nella violazione della legge prevenzionistica in materia di formazione, che ometteva di assicurare a ciascun lavoratore una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni, ponendo in essere un antecedente causale necessario dell’incidente occorso ad un dipendente: quest’ultimo, operaio alle dipendenze della ditta predetta, mentre lavorava con una pressa idraulica alla sagomatura degli induttori di motori elettrici avendo ricevuto solo una sommaria e non adeguata formazione e informazione sulle mansioni lavorative che stava svolgendo, incautamente prima di far partire la pressa, azionava i pulsanti non utilizzando simultaneamente entrambe le mani bensì premendo il tasto di sinistra con il ginocchio sinistro e quello di destra con la mano destra, e rimanendo, nel repentino susseguirsi delle operazioni di sagomatura, intrappolato con la mano sinistra, rimasta libera, sotto la pressa e così riportando le lesioni personali gravi suindicate” (Sentenza n.13247 del 08/04/10 della Cassazione Penale).

La Corte afferma che: “si osserva, in ordine al comportamento della persona offesa, che la questione sollevata dalla difesa è stata compiutamente valutata e disattesa con congrua motivazione dal Giudice d’appello, il quale è giunto a escluderne l’abnormità e arbitrarietà e finanche l’imprudenza, sicché detta censura s’appalesa nettamente aspecifica, avendo la sentenza impugnata precisato persino che, non potendosi parlare di vero e proprio cambio di mansioni avvenuto al di fuori e contro le direttive del datore di lavoro e del relativo potere-dovere di vigilanza, e ciò sulla scorta non solo delle dichiarazioni dell’infortunato ma anche di altri operai (addetti alla pressa), deve pervenirsi alla conclusione che non solo da parte del soggetto depositario della posizione di garanzia venne omesso qualsiasi corso di formazione ed informazione sui rischi in generale, ma anche specifici connessi all’uso di quella pressa. Infatti la pressa in origine era dotata di due cellule fotoelettriche, che impedivano alla parte in movimento della macchina di muoversi in senso verticale dall’alto verso il basso, in modo da esercitare una notevole pressione sul pezzo metallico da sagomare, quando nei pressi del pezzo e comunque nel raggio di discesa della parte mobile vi era un ostacolo di qualsiasi genere. In tal modo la pressa rimaneva bloccata, quando l’operatore non aveva ancora tolto le mani dalla parte fissa della pressa utilizzata per poggiare il pezzo da sagomare. In tal modo veniva assicurata la protezione dell’operatore da rischi di infortuni. Verificatasi l’avaria delle cellule fotoelettriche, la funzionalità della macchina veniva ripristinata, in maniera del tutto artigianale, da un dipendente della stessa impresa, il quale disattiva il circuito delle fotocellule e ripristinava il funzionamento della pressa, applicandosi due pulsanti alla base della stessa, da pigiare contemporaneamente al fine di provocare la discesa della parte mobile. Perseverando nella condotta omissiva, il datore di lavoro non provvedeva a istruire i dipendenti neppure sull’uso della pressa a seguito della modifica apportata, limitandosi a far apporre un cartello sul quale era stampato l’avviso di pigiare contemporaneamente i due pulsanti con entrambe le mani” (Sentenza n.13247 del 08/04/10 della Cassazione Penale).

Rolando Dubini

 

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ATTIVITA’ ESTERNE: GLI INCIDENTI STRADALI SONO UN RISCHIO LAVORATIVO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

 

10 settembre 2014

di Tiziano Menduto

 

I rischi più comuni per i lavoratori inviati fuori dalla propria sede per svolgere una attività lavorativa esterna. Le fasi di lavoro da valutare, l’uso dell’auto come attrezzatura di lavoro, l’infortunio in itinere e gli obblighi del datore di lavoro.

 

Al di là delle responsabilità e degli obblighi dei datori di lavoro mandante e ospitante quali sono i rischi più comuni per i lavoratori inviati fuori dalla propria sede per svolgere una attività lavorativa esterna?

Per rispondere a questa domanda riprendiamo la presentazione del documento INAIL Settore Ricerca Dipartimento Tecnologie di Sicurezza dal titolo “Le attività esterne: valutazione dei rischi per attività svolte presso terzi”, a cura di Raffaele Sabatino.

Nel capitolo dedicato ai rischi specifici inerenti le attività esterne, il documento ricorda che il datore di lavoro mandante, responsabile per la sicurezza e la tutela della salute dei propri lavoratori, anche quando questi prestino la loro opera al di fuori dei confini materiali dell’Azienda di appartenenza, ha l’obbligo di informare i lavoratori sui rischi specifici dell’attività e deve assicurare la formazione e informazione ai propri lavoratori riferita ai rischi oggettivamente riscontrabili nei vari ambienti.

Si possono individuare, in occasione di attività lavorative eseguite presso terzi, due fasi di lavoro:

  • il trasferimento sul posto e rientro in sede (rischio d’incidente stradale);
  • l’esecuzione delle diverse attività.

La prima fase può essere inoltre esaminata in due momenti da valutare separatamente:

  • preparazione della strumentazione e dell’autoveicolo: prima di effettuare il servizio in esterno il personale sarebbe opportuno che controlli che il mezzo assegnato per il servizio risulti perfettamente funzionante ed efficiente;
  • fasi in itinere.

Ricordiamo che l’infortunio in itinere è quel particolare infortunio che il lavoratore subisce nel tragitto che deve necessariamente percorrere per recarsi sul luogo di lavoro e la normativa vigente (D.Lgs.38/00) prevede che l’infortunio in itinere sia compreso nella copertura assicurativa che viene fornita dall’INAIL.

Tuttavia per poter essere indennizzato l’infortunio deve avvenire all’interno del normale percorso (di andata e di ritorno) effettuato per recarsi sul lavoro. Per questo motivo, se il lavoratore effettua delle interruzioni del tragitto o delle deviazioni, che non sono necessarie, l’assicurazione obbligatoria non coprirà l’evento lesivo. Si considerano necessarie le interruzioni e le deviazioni quando sono dovute a cause di forza maggiore, a esigenze essenziali e improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti, cioè obblighi la cui mancata osservanza costituisce reato e viene punita dalla legge penale. L’assicurazione copre anche l’infortunio quando il lavoratore non utilizza i mezzi pubblici e si avvale di un mezzo privato a patto che questo utilizzo sia necessario. L’utilizzo del mezzo privato è consentito quando mancano mezzi pubblici che servono la tratta oppure, pur essendovi linee pubbliche di collocamento, non consentono la puntuale presenza sul luogo di lavoro o comportano eccessivo disagio al lavoratore in relazione alle esigenze di vita familiare.

Il documento, dopo aver riportato per esteso quanto indicato dal D.Lgs.38/00, segnala che l’indennizzabilità dell’infortunio è esclusa quando la distanza tra l’abitazione e il luogo di lavoro sia percorribile a piedi, quando il lavoratore utilizzi la vettura all’esterno per far fronte a un problema aziendale estraneo alle mansioni svolte e senza autorizzazione del datore di lavoro, quando l’uso dei mezzi pubblici non sia particolarmente disagevole e richieda quasi lo stesso tempo occorrente per effettuare il percorso con il mezzo privato. Sono, ovviamente, esclusi dall’indennizzo gli infortuni direttamente causati dall’abuso di sostanze alcoliche e di psicofarmaci, dall’uso (non terapeutico) di stupefacenti e allucinogeni, nonché dal mancato possesso della patente di guida da parte del conducente.

Viene poi segnalata la Circolare INAIL n.52 del 23 ottobre 2013 inerente i “criteri per la trattazione dei casi di infortunio avvenuti in missione e in trasferta”.

La circolare specifica che si debbono ritenere meritevoli di tutela, nei limiti sopra delineati, tutti gli eventi occorsi a un lavoratore in missione e/o trasferta dal momento dell’inizio della missione e/o trasferta fino al rientro presso l’abitazione.

Considerando dunque l’auto come attrezzatura di lavoro, viene sottolineato che le statistiche mostrano come gli incidenti stradali siano una vera e propria emergenza sociale: non esiste alcuna attività criminale (terrorismo, mafia, microcriminalità, ecc.) che produca, attualmente, lo stesso numero di vittime.

E dunque gli incidenti stradali devono essere considerati, a pieno titolo, come un effettivo rischio lavorativo, in un contesto in cui la strada rappresenti il luogo di lavoro e il veicolo potrebbe configurarsi come un’attrezzatura.

Riguardo agli obblighi di valutazione di tutti i rischi associati alle varie mansioni lavorative, spesso rappresentano rischi di natura trasversale, spesso sottostimati:

  • il rischio in itinere;
  • il rischio legato all’uso di veicoli aziendali, o privati, all’interno dell’orario di lavoro (incidenti stradali).

In particolare circa la metà degli infortuni mortali sul lavoro denunciati avviene in strada, risultando questi suddivisi, circa 50% e 50%, tra infortuni in itinere e infortuni durante il lavoro. I lavoratori coinvolti negli infortuni alla guida non sono solo quelli dei trasporti di merci e persone, bensì anche tutti quelli che, per il loro lavoro, debbono spostarsi da un luogo all’altro.

E i dati ISTAT indicano che oltre il 96% degli eventi che causano incidenti alla guida sono imputabili a comportamenti impropri del conducente (o del pedone) nella circolazione:

  • mancato rispetto delle regole della precedenza o del semaforo (16,8%);
  • guida distratta o andamento indeciso (16,9%);
  • velocità troppo elevata (11,5%);
  • mancato rispetto delle distanze di sicurezza (10,1%).

Dunque nell’ambito del documento di valutazione dei rischi si vengono a configurare come fonti di rischio:

  • le condizioni e l’efficienza del veicolo (manutenzione periodica, dotazioni di dispositivi di sicurezza, equipaggiamenti a bordo, ecc.);
  • le condizioni psico-fisiche del conducente (fattore umano);
  • le condizioni meteorologiche e di viabilità che s’incontreranno durante il tragitto (fattore strada).

A livello di prevenzione sono indicati alcuni obblighi in capo al datore di lavoro:

  • fornire un parco macchine verificato, adeguato e collaudato nei termini di legge;
  • fornire strumenti di gestione del parco auto;
  • responsabilizzare i lavoratori (specie nel caso di utilizzo di mezzi privati: polizze “kasko”, ecc.).

Inoltre in relazione ai principi del D.Lgs.81/08 ogni lavoratore deve aver cura degli strumenti di cui dispone per la propria attività ed è dunque tenuto a:

  • prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro;
  • utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e, nonché i dispositivi di sicurezza;
  • segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo, di cui viene a conoscenza.

Insomma a latere di una corretta valutazione dei rischi e alla fornitura di un idoneo parco macchine, per prevenire gli incidenti si deve agire anche sui comportamenti (formazione, addestramento, sensibilizzazione, ecc.), sulle regole di utilizzo (regolamenti, codice di comportamento, ecc.) e sui mezzi (revisione e manutenzione periodica, aggiornamento delle dotazioni di sicurezza, ecc.).

Per concludere sul tema dei rischi dell’ auto usata come attrezzatura di lavoro, segnaliamo che il documento riporta alcune informazioni sulle diverse tipologie di mezzo utilizzato:

  • vettura aziendale: occorre che la macchina sia in condizioni di manutenzione ottimali (documentabili attraverso schede di manutenzione programmata, fatture e analoghi supporti); analogamente per una macchina in leasing (ovviamente proveniente da casa automobilistica primaria);
  • auto di proprietà: nel caso il lavoratore sia autorizzato a usare un’autovettura di proprietà a rimborso chilometrico, tutte le responsabilità di cui sopra sono trasferite al medesimo; non è però da scartare una clausola che permetta all’Azienda di controllare lo stato di efficienza della vettura stessa in forza del fatto che il rimborso pattuito è calcolato anche in base agli oneri da sopportare per mantenere in efficienza il mezzo, e che un eventuale incidente stradale che impedisca al lavoratore di operare comporta comunque un danno all’Azienda stessa.

Il documento INAIL Settore Ricerca Dipartimento Tecnologie di Sicurezza dal titolo “Le attività esterne: valutazione dei rischi per attività svolte presso terzi”, a cura di Raffaele Sabatino è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_140319.pdf

 

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COME FARE LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO INCENDIO NEI LUOGHI DI LAVORO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

 

17 settembre 2014

di Tiziano Menduto

 

Un progetto del Dipartimento dei Vigili del Fuoco si sofferma sugli adempimenti di legge in materia di prevenzione antincendio e sulla valutazione del rischio d’incendio. Focus sulla classificazione dei combustibili e del livello di rischio.

 

Il rischio di incendio nei luoghi di lavoro è legato non solo al tipo di attività svolto e ai materiali immagazzinati e manipolati, ma anche alle attrezzature presenti, agli arredi, alle caratteristiche costruttive e ai materiali di rivestimento utilizzati.

E’ sufficiente conoscere come avviene il processo di combustione per comprendere come quasi ogni luogo di lavoro presenti potenzialmente un pericolo di incendio. Nell’ambiente lavorativo è probabile che materiali, attrezzature e attività lavorative forniscano gli elementi necessari per la combustione (combustibile e innesco): aggiungendo il comburente presente nell’aria si formano le condizioni indispensabili perché si sviluppi un incendio. Ma per capire per ogni specifico luogo di lavoro (ad esempio un albergo, un ristorante, una fabbrica ecc.) con quale probabilità quest’evento critico si possa verificare, quali danni possa cagionare, e come poterlo prevenire e fronteggiare, deve essere sviluppata la valutazione del rischio d’incendio.

Ad affermarlo e a darci qualche informazione sulla sicurezza antincendio e sulla valutazione dei rischi, è un documento correlato a un progetto realizzato dal Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, in collaborazione con il FEI (Fondo Europeo per l’Integrazione dei Paesi Terzi).

 

Nel documento “Sicurezza antincendio e datori di lavoro – Linee guida per la valutazione dei rischi” si sottolinea che la valutazione del rischio di incendio consiste in un processo di pianificazione, attuazione, monitoraggio e riesame dei rischi di incendio presenti. Un processo che consente al datore di lavoro di prendere i provvedimenti effettivamente necessari per salvaguardare la sicurezza dei lavoratori e delle altre persone presenti nel luogo di lavoro che comprendono:

  • la prevenzione del rischio di incendio;
  • l’informazione dei lavoratori e delle persone presenti;
  • la formazione dei lavoratori;
  • le misure tecnico-organizzative destinate a porre in essere i provvedimenti necessari.

Ma come si fa la valutazione del rischio incendio?

Abbiamo già detto che tale valutazione permette di individuare il livello di esposizione al rischio incendio in ogni ambiente di lavoro. In particolare il livello esprime la probabilità che questo evento accada e le possibili conseguenze dannose per le persone e i beni presenti. Stabilire il livello di esposizione al rischio di incendio, consente di individuare azioni e misure per ridurre cause di innesco e propagazione. E la valutazione dei rischi si sviluppa attraverso le diverse fasi con le quali viene identificata la migliore strategia antincendio da adottare nel luogo di lavoro esaminato.

Per identificare i pericoli di incendio devono essere innanzitutto individuati tutti i materiali combustibili e infiammabili presenti nel luogo di lavoro e nelle diverse parti di esso. E i combustibili possono essere classificati in solidi, liquidi e gassosi in base allo stato fisico in cui si trovano a temperatura e pressione ambiente.

 

Facciamo qualche esempio.

I combustibili solidi sono molto usati e quindi largamente presenti nei più comuni luoghi di lavoro. Tra i combustibili solidi naturali il più importante, per il diffuso utilizzo anche dei suoi derivati, è il legno. La temperatura di accensione del legno è piuttosto contenuta, intorno ai 250°C, ciò rende il legno un materiale che, quando innescato, brucia facilmente propagando l’incendio. Un altro fattore che influisce sullo sviluppo dell’incendio è la parcellizzazione del combustibile (sia solido sia liquido) che, ridotto in piccole particelle migliora la miscelazione con l’aria (comburente), aumentando sulla velocità di combustione (ad esempio: un ceppo di legno brucia più lentamente dello stesso volume di legno ridotto in segatura). Nella valutazione dei rischi correlati ai combustibili solidi, si dovrà quindi tenere conto anche di questa caratteristica, rappresentata dalla pezzatura dei materiali, che influirà sulla determinazione del livello di rischio di incendio.

Combustibili liquidi sono artificiali e naturali. Tra questi ultimi sono classificati i derivati del petrolio (benzine, alcol, olii ecc.), di gran lunga più utilizzati rispetto ai combustibili liquidi artificiali. La combustione, anche per questi materiali, si sviluppa solo se c’è presenza contemporanea di un combustibile, di un comburente e di un’energia di attivazione (temperatura di infiammabilità). Nei liquidi, il combustibile è formato dai vapori dei liquidi che devono miscelarsi con l’ossigeno dell’aria in concentrazioni comprese nel campo di infiammabilità. Quest’ultimo esprime il rapporto tra combustibile e comburente, nel quale la miscela, se innescata, brucia. I parametri per valutare la pericolosità dei liquidi infiammabili sono legati al campo e alla temperatura di infiammabilità. Valori bassi della temperatura di infiammabilità indicano una maggiore pericolosità del combustibile.

I combustibili gassosi fra i quali i più diffusi sono gli idrocarburi gassosi: metano, etano, propano e butano (il primo è il comune gas stoccato in bombole da cucina o in serbatoi da esterni, composto da propano e butano che opportunamente miscelati formano il GPL). I gas combustibili sono generalmente molto puri, miscelati con l’aria (e quindi con l’ossigeno) bruciano senza dare origine a sostanze incombuste e a fumi.

Dopo questo brevissimo approfondimento sui combustibili, torniamo alla valutazione dei rischi.

Ai fini della valutazione del rischio di incendio dovranno essere individuati i materiali che possono facilitare il rapido sviluppo di un incendio come, ad esempio, grandi quantitativi di carta, materiali da imballaggio, materiali plastici, legnami, vernici e i solventi infiammabili, i gas infiammabili ecc. Parallelamente, dovranno essere analizzate le condizioni ambientali che caratterizzano il luogo di lavoro in esame in relazione ai pericoli di incendio presenti.

Inoltre nei luoghi di lavoro possono trovarsi anche sorgenti di innesco e fonti di calore che costituiscono cause potenziali di incendio e possono favorirne la propagazione (in alcuni casi possono essere di immediata identificazione, in altri possono essere conseguenza di difetti meccanici o elettrici).

Con la valutazione dei rischi dovranno poi essere identificate le sorgenti di calore che potrebbero causare l’innesco dei materiali combustibili (ad esempio l’uso fiamme libere, attriti, macchine e apparecchiature non installate o utilizzate secondo le norme di buona tecnica, o da processi lavorativi che comportano presenza di fiamme o scintille, come taglio, affilatura, saldatura).

Infine, nella valutazione dei rischi, dovranno essere indicati i lavoratori e le altre persone presenti in relazione al rischio di incendio riscontrato.

Anche nelle situazioni in cui nessuno risulti particolarmente esposto, non devono essere dimenticate situazioni e casi specifici: ad esempio la presenza di persone incapaci di reagire prontamente in caso di incendio perché non conoscono l’ambiente che frequentano occasionalmente (come il pubblico presente durante uno spettacolo), oppure perché impegnati in attività che riducono la percezione dell’evento (ad esempio orario di riposo nelle strutture ricettive) o, infine, per ridotte capacità percettive (bambini e disabili).

A conclusione delle analisi effettuate la valutazione qualitativa degli elementi osservati permetterà di classificare l’intero luogo di lavoro analizzato e ogni parte di esso, secondo un livello di rischio d’incendio raggiunto: basso, medio, elevato.

Concludiamo questa presentazione della valutazione del rischio incendio ricordando la classificazione a seconda dei livelli di rischio:

  • luoghi di lavoro a rischio di incendio basso: luoghi di lavoro o parte di essi, in cui sono presenti sostanze a basso tasso di infiammabilità e le condizioni locali e di esercizio offrono scarse possibilità di sviluppo di principi di incendio e in cui, in caso di incendio, la probabilità di propagazione dello stesso è da ritenersi limitata;
  • luoghi di lavoro a rischio di incendio medio: luoghi di lavoro o parte di essi, in cui sono presenti sostanze infiammabili e/o condizioni locali e/o di esercizio che possono favorire lo sviluppo di incendi, ma nei quali, in caso di incendio, la probabilità di propagazione dello stesso è da ritenersi limitata;
  • luoghi di lavoro a rischio di incendio elevato: luoghi di lavoro o parte di essi, in cui, per presenza di sostanze altamente infiammabili e/o per le condizioni locali e/o di esercizio, sussistono notevoli probabilità di sviluppo di incendi e nella fase iniziale sussistono forti probabilità di propagazione delle fiamme, ovvero non è possibile la classificazione come luogo a rischio di incendio basso o medio.

Segnaliamo infine che il documento prodotto dal Dipartimento dei Vigili del Fuoco è disponibile in otto lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo, albanese, arabo, cinese e ucraino) ed è diffuso tramite due supporti: uno tradizionale cartaceo e uno multimediale, correlato a un’applicazione nata con l’obiettivo di facilitare la divulgazione delle misure necessarie per la sicurezza del lavoro disposte dalla legislazione italiana.

Il documento “Sicurezza antincendio e datori di lavoro – Linee guida per la valutazione dei rischi”, edizione maggio 2014, a cura del Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, in collaborazione con il Fondo Europeo per l’Integrazione dei Paesi Terzi è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/140916_VVF_valutazione_rischio_incendio.pdf

 

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