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Note inerenti lo studio “Emissioni di polveri fini e ultrafini da impianti di combustione. Sintesi finale. Ottobre 2010”
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La relazione di sintesi dello studio in oggetto è stata presentata in un convegno a Milano il 3.12.2010 quale revisione e aggiornamento di uno studio di pari contenuto la cui prima versione di sintesi è stata resa pubblica nel maggio 2009 [1]. In realtà non vi sono dati tecnici aggiuntivi rispetto alla precedente versione, alcuni commenti e puntualizzazioni, invece, sono state eliminate o riformulate. Allo stato non è disponibile lo studio nella sua interezza e pertanto non è possibile entrare in considerazioni di dettaglio a partire dalle modalità di conduzione dello stesso. E’ possibile svolgere delle considerazioni sulla formazione e interpretazione dei dati presentati, nel presupposto che i risultati analitici siano “reali” ovvero che le modalità della loro produzione ed elaborazione siano affidabili e coerenti con gli scopi della ricerca. Quanto sopra perché lo studio è stato impropriamente ed estesamente utilizzato quale “dimostrazione” della innocuità degli impianti di incenerimento e quindi della infondatezza delle ragioni della ampia opposizione alla realizzazione di questi impianti come pure alle ragioni della messa in discussione della perpetuazione dell’inquinamento causata da un ciclo “aperto” delle merci e garantita anche dalla progettazione e costruzione di nuovi inceneritori, in Italia e altrove.

Finalità dello studio, eseguito su incarico di Federambiente, e svolto dal laboratorio LEAP con l’ausilio di docenti del Politecnico di Milano e delle Università degli Studi di Parma e di Brescia, è quello di “inquadrare e valutare criticamente la fenomenologia, la consistenza e le potenziali implicazioni delle emissioni di particolato fine ed ultrafine da impianti di combustione, per tutto lo spettro dimensionale delle polveri emesse: dal minimo rilevabile di alcuni nano-metri (1 nanometro = 1 milionesimo di millimetro) fino al limite di 10 micron (1 micron = 1 millesimo di millimetro)”. Lo studio si concentra su alcune frazioni : ultrafini (< 0,1 micron) e nanopolveri (il cui range dimensionale è considerato nello studio come < 0,05 micron) [2] ed è, per molti aspetti, “tributario” delle attività svolte dal 2004 nell’ambito del progetto PARFIL della Regione Lombardia [3] . I risultati delle sperimentazioni presentate nello studio sono utilizzati per considerazioni sull’impatto ambientale e sanitario degli impianti di incenerimento, obiettivo non dichiarato nelle premesse della sintesi (né sappiamo se sono state esplicitamente previste nell’incarico di Federambiente) [4]. L’unico accenno in tal senso è contenuto in una delle quattro linee di studio in termini però di approfondimento qualitativo (caratterizzazione chimica) delle polveri ultrafini e delle nanopolveri da “termovalorizzatori di rifiuti” [5]. Aspetto che, come si vedrà, è stato solo parzialmente sviluppato. Secondo quanto indicato nello studio, l’interesse su tale sorgente inquinante, è dovuto alla peculiarità del dibattito italiano ove “alcune componenti dell’ambientalismo hanno indirizzato l’attenzione al riguardo sul trattamento termico dei rifiuti, postulando una connessione diretta tra combustione dei rifiuti e presunti effetti sulla salute del PU” (Polveri Ultrafini). Lo studio servirebbe pertanto a rispondere a non meglio precisati ambientalisti, e alla loro attenzione impropria al tema inceneritori/PU, in quanto, secondo gli estensori, “non esistono allo stato attuale elementi scientifici, né probanti né sospetti, per escludere a priori questa tecnica di smaltimento e recupero di energia a causa del ruolo presunto delle emissioni sulle presenze atmosferiche del particolato fine e delle nanopolveri”. Se l’unico scopo dello studio fosse davvero questo, ovvero quello di rispondere a uno specifico motivo di opposizione all’incenerimento dei rifiuti non se ne ravviserebbe l’utilità né la necessità di commentarlo in quanto le motivazioni che determinano la contrarietà alla realizzazione di impianti di incenerimento sono ben più articolate. Queste motivazioni riguardano, infatti, la perpetuazione di cicli di estrazione di materie, trasformazione, commercializzazione e gestione post-consumo di materie e merci e, da ultimo, la previsione di sistemi gestionali basati sull’incenerimento dei cosiddetti rifiuti (allo stato la cosiddetta “gestione integrata dei rifiuti”); sono argomenti fondati, in primis, sulla insostenibilità della filiera produttiva complessiva (e sulla crescita illimitata) e non certo solo ed esclusivamente sull’impatto locale di un singolo impianto di incenerimento e, ancor meno, su un singolo inquinante. Solo attribuendo alla opposizione all’incenerimento dei rifiuti una posizione riduzionistica inesistente e parodistica (ovvero che solo gli impianti di incenerimento producono polveri fini e ciò sarebbe motivo sufficiente e “dimostrato” per non realizzarli) l’affermazione sopra riportata, che appare essere la principale acquisizione e scopo dello studio, ha un qualche significato ed utilità (per i committenti dello studio). Appare inoltre singolare che si appresti (e si finanzi) una ricerca non per dimostrare/mostrare qualcosa sotto il profilo scientifico e sperimentale ovvero per incrementare conoscenze utili anche per prendere decisioni ma per “non escludere” una determinata tecnologia. Non solo ma, come vedremo, le ombre da chiarire come pure e le necessità di approfondimenti sono più d’una.

Lo studio, anche nella sua versione di sintesi, presenta comunque degli elementi utili non solo nell’ambito generale della dialettica tra le diverse posizioni sui sistemi di (produzione e ) gestione dei rifiuti ma anche di conoscenze in grado di meglio inquadrare gli impatti ambientali di scelte diverse e alternative tra loro.

Fermo quanto sopra si evidenziano i passaggi di maggior interesse della conduzione dello studio e delle scelte svolte soffermandoci poi sui risultati delle misurazioni sperimentali nonchè sulle letture proposte dagli estensori su quanto emerge dallo studio rispetto alle conoscenze pregresse, ricavabili dalla letteratura disponibile.

2) Prelievo e analisi delle polveri fini

Ai fini dello studio, per lo svolgimento di misurazioni su impianti attivi (caldaie e inceneritori), sono state adottate strumentazioni sperimentali date le caratteristiche particolari dei parametri ricercati. Il campionamento del particolato è stato condotto secondo il metodo EPA CTM-039 utilizzato per la determinazione della frazione PM2,5 comprensiva della componente condensabile. La novità è rappresentata dall’accoppiamento al sistema di campionamento di un ELPI (Electric Low Pressure Impactor) per il conteggio e la classificazione granulometrica delle polveri.

Sicuramente un aspetto di interesse dello studio è proprio la sperimentazione in campo di nuove tecniche e strumentazioni di misura per l’analisi delle polveri ultrafini e delle nanopolveri, a fronte di sistemi analitici ad oggi validati per la misura di polveri fini solo per l’aria ambiente (PM2,5) (UNI EN 14907:2005 v. Dlgs 155/2010) e non esenti da criticità. Si evidenzia che non è indicato il metodo di prelievo e analisi per la misurazione della concentrazione in aria ambiente (nel caso del progetto Parfil sono stati adottati “normali” campionatori gravimetrici). Da altre fonti (Report attività 2008 della Stazione Sperimentale dei Combustibili) è possibile sapere che “L’acquisizione da parte del Laboratorio Combustione-Ambiente, nel corso del 2008, di due strumenti per la misurazione del nanoparticolato nelle emissioni e nell’aria ambiente (il neretto è nostro, ndr), ha consentito di programmare un significativo ampliamento degli studi in questo settore per il 2009 e oltre. Gli apparecchi sono stati collaudati e valutati in vista degli specifici impieghi. Lo strumento FMPS (Fast Mobility Particle Sizer) misura le distribuzione e il numero di particelle ultrafini nel range da 5.6 a 560 nm attraverso 32 canali di risoluzione. La risoluzione temporale massima è di un secondo; grazie a questa è possibile monitorare in tempo reale la distribuzione delle particelle anche durante eventuali transitori. A questo strumento si aggiunge il contatore di particelle UFP (Ultrafine Particle Monitor) in uso per il monitoraggio della qualità dell’aria, funzionante su analogo principio. L’impiego integrato di questi strumenti, accoppiati alle tecniche già precedentemente messe a punto consentirà di condurre accurati studi sulle emissioni di nanoparticolato dalla combustione di biomasse solide e liquide. “ Le varianti introdotte nelle misure sugli impianti “di riferimento” (le caldaie con combustibili tradizionali disponibili presso la Stazione Sperimentale dei Combustibili) sono state quelle delle misurazioni con diversi rapporti di diluizione dei fumi.

E’ opportuno evidenziare che il sistema di campionamento ELPI è stato inizialmente sviluppato per studiare il particolato da impianti di combustione. Successivamente è stato messo a punto dalla casa costruttrice Dekati un ELPI dedicato per le misure “Outdoor”, un sistema che dovrebbe essere quello utilizzato per la misurazione dell’aria ambiente nello studio in esame ma, purtroppo, nella sintesi nulla si dice in dettaglio. Per quanto risulta a chi scrive la versione dell’apparecchiatura di misurazione per l’aria ambiente è dotata di un disidratore di particelle (Dryer DD-600) per evitare che la presenza di umidità determini errori di misurazione. Non sappiamo se l’apparecchio utilizzato nella sperimentazione condotta avesse questo strumento e quale sia l’influenza della presenza di umidità nella misurazione delle particelle considerando le differenti caratteristiche dell’aria ambiente da quella di una emissione di un impianto industriale. L’unico accenno in tal senso , nella sintesi dello studio di Federambiente (p. 24) è presente nelle conclusioni ove, riferendosi all’inceneritore di Bologna, si afferma che il leggero incremento del numero di particelle nelle emissioni rispetto all’aria ambiente viene attribuito al pur modesto aumento del contenuto di umidità del flusso gassoso, per effetto del sistema di abbattimento ad umido di cui è dotato quell’impianto. Non sappiamo inoltre come sia stato trattato l’aspetto relativo alle diverse forme di espressione dei valori di particelle in due fluidi (emissioni e aria ambiente) con caratteristiche fisiche diverse, quel che è certo è che piccole differenze di fattori particolarmente variabili nell’aria ambiente (umidità, temperatura, pressione, radiazione solare, velocità del vento come pure la reattività tra specie chimiche presenti in forma gassosa) possono determinare importanti differenze nel conteggio delle particelle (primarie e secondarie). A quest’ultimo riguardo è singolare che i valori utilizzati (per le tre postazioni corrispondenti agli inceneritori considerati) sono valori univoci mentre per le emissioni, più correttamente, si mostrano range di valori (minimo/massimo). Sarebbe stato infatti opportuno valutare congiuntamente la concentrazione (massa) delle polveri (PM10) in aria ambiente, e comunque effettuare campionamenti in diverse condizioni meteo climatiche per dare conto delle variazioni anche su base oraria e stagionale dell’aria ambiente rispetto alle emissioni degli impianti considerati, tendenzialmente uniformi a esercizio a regime. Dalla sintesi dello studio invece non veniamo a conoscere nemmeno quando sono stati effettuati i prelievi di aria ambiente rispetto a quelli delle emissioni. Nel complesso, dallo spazio e dal dettaglio contenuto nella sintesi dello studio, appare evidente l’ampia attenzione che gli estensori dedicano a tutti gli aspetti connessi alle prestazioni delle “macchine” esaminate mentre gli aspetti ambientali sono sommariamente illustrati. Ciò nonostante il “messaggio” conclusivo si fondi principalmente sul confronto (e l’interpretazione) da dati delle emissioni delle “macchine” rispetto a quelli ambientali.

3) Valutazioni delle conoscenze pre-studio

Gli estensori dello studio, dalle indagini bibliografiche svolte, evidenziano “da un lato, la complessità e l’estrema difficoltà nel descrivere la fenomenologia dei processi di formazione, di diffusione, trasporto e conversione atmosferica, nonché di impatto sulla salute del particolato ultrafine. Dall’altro, la notevole carenza di dati, modelli e tecniche di misura che, anche solo precauzionalmente, possano giustificare interventi atti a limitare le attività di particolari sorgenti di polveri ultrafini.” Altra conoscenza (o meglio “ignoranza”) di base evidenziata dagli estensori è la seguente : “la combustione è una delle tante attività antropiche che, assieme ad una serie di fonti naturali, emette anche particolato ultrafine. Non esistono tuttavia al momento indicazioni documentabili sulla connessione tra specifiche tecnologie di combustione fissa e la presenza di particolato ultrafine in atmosfera, né con l’esposizione della popolazione” se non nel caso del traffico. Scopo dello studio, quindi, dovrebbe essere quello di andare oltre tale conoscenza generale (la combustione produce anche particolato fine) per arrivare a quantificare e caratterizzare le diverse tecnologie di combustione in funzione della loro propensione alla produzione delle frazioni fini di polveri.

Proprio per questo secondo fine gli estensori richiamano alcuni aspetti ed in particolare: a) vi sono contributi primari (“particolato emesso come tale dalla sorgente” considerata) e secondari (“risultanti da processi di formazione in atmosfera che coinvolgono precursori emessi dalle sorgenti allo stato gassoso”); b) l’interesse per le polveri ultrafini è dovuto alle loro dimensioni in quanto rappresentano un rischio diverso da quello finora studiato e valutato in termini di massa (peso) delle polveri. La loro particolarità è data dal numero e dall’entità della superficie specifica (molto più elevati al ridursi delle dimensioni del particolato). La possibilità che, a parità di concentrazione, la distribuzione granulometrica delle polveri verso le dimensioni inferiori, rispetto a quelle oggetto di misurazione da tempo (polveri totali sospese, PM10), sia tale da determinare maggiori impatti sanitari viene espressa nello studio come un “legittimo dubbio”; c) il contenuto di polveri ultrafini in atmosfera è il risultato di processi complessi : “Il contenuto di PU in atmosfera è intrinsecamente instabile a causa di una serie di complessi processi che modificano numero e dimensioni delle particelle: nucleazione, coagulazione, condensazione ed evaporazione” ed in cui “giocano un ruolo fondamentale la meteorologia, la quantità di particelle preesistenti e le emissioni di gas precursori” del particolato secondario, con le relative difficoltà di individuare il contributo delle singole sorgenti in una data situazione ambientale, ma anche, come già detto, a poter determinare il numero di particelle in aria ambiente con modalità confrontabili con le emissioni industriale e da combustione.

A questo punto lo studio passa in rassegna sinteticamente le sorgenti di emissione soffermandosi, in primis, sui dati di letteratura relativi alla combustione da autoveicoli con diverse configurazioni del motore, dei combustibili e dei sistemi di abbattimento ove esistenti. Un aspetto che viene poi rifocalizzato più avanti (parlando di filtri a manica negli inceneritori) è l’effetto dei dispositivi di abbattimento sulla dimensione e numero delle polveri emesse (filtri antiparticolato - FAP - per motori diesel). L’effetto di cattura di particelle solide nei FAP disturberebbe i processi di condensazione dei precursori gassosi riducendo la formazione di polveri ultrafini, i precursori, pertanto, si associano per nucleazione determinando un incremento nella formazione di nanoparticelle. Come vedremo tale effetto viene riscontrato come analogo anche nel caso dei filtri a manica per il trattamento dei fumi degli inceneritori (e, presumibilmente, di altre sorgenti fisse).

Si evidenzia che si sta parlando di formazione di particelle dal momento della combustione (motore e/o caldaia) a quella della emissione del gas di scarico dopo il trattamento, quindi della totalità delle polveri e della prima “trance” delle polveri secondarie (condensabili). In aria ambiente, in relazione alle condizioni meteoclimatiche e preesistenti, entrano poi in gioco i meccanismi di formazione/trasformazione del particolato secondario ovvero, una volta emesse le particelle i meccanismi di nucleazione continuano (con ogni probabilità principalmente con processi di coagulazione) [6] e le particelle diminuiscono di numero e aumentano di massa, in parte depositandosi al suolo (ma comunque con possibilità di risospensione).

Quando si andrà a misurare l’aria ambiente (per confrontarla con i dati dell’emissione) si misurerà il risultato di tali complesse trasformazioni chimico-fisiche. In altri termini lo studio delle caratteristiche delle polveri primarie (ultrafini e nanopolveri comprese) costituisce solo una parte dello studio degli effetti delle emissioni da sorgenti fisse sulla presenza di particolato nell’ambiente in particolare in termini di distribuzione dimensionali.

L’aspetto non considerato nello studio è, in sostanza, la formazione di particolato secondario in aria ambiente connesso con le emissioni di inquinanti precursori (ossidi di azoto, ossidi di zolfo, composti ammoniacali in primis), meccanismo conosciuto e sintetizzato nella figura riportata sotto.

Stiamo parlando di componenti il cui peso, nella composizione di polveri fini (PM2,5), è importante. Per esempio, negli studi sulla stazione di via Messina, Milano, nel corso del 2002 e 2003, la sola componente inorganica secondaria sul PM2,5 è stata valutata (sempre dal DIIAR del Politecnico) nel 35 % in peso circa nel periodo invernale e oltre il 41 % nel periodo estivo. Per quanto concerne il particolato secondario di origine organica, sempre a Milano, è stato stimato (con riferimento al traffico - periodo estivo) una quota pari all’85 % del materiale organico presente nelle polveri fini. Per questo è ineccepibile la considerazione degli estensori dello studio in esame ove, richiamando i dati di letteratura per gli impianti fissi (riassunti nella figura 6 dello studio che si riporta), affermano che “Il confronto è del tutto indicativo, poiché le emissioni sono fortemente influenzate dal tipo di combustibile, dalla tecnologia di combustione, dal sistema di rimozione delle polveri (filtri) e dalle condizioni di esercizio dell’impianto. A tutto ciò si aggiungono le caratteristiche del sistema di campionamento e di conteggio delle particelle, in particolare la capacità di cogliere e misurare le componenti semivolatili condensabili.” Meno ineccepibile è che tali incertezze intrinseche dalle conoscenze di letteratura scompaiano per effetto dello studio in esame e che dallo stesso possano emergere solo certezze anche sotto forma delle singolari conclusioni di “non esclusione” dell’utilizzo di inceneritori per la gestione dei rifiuti in rapporto alla loro, comprovata dalla stesso studio, emissioni di polveri in un ampio range granulometrico ed in particolare (ed in misura maggiore rispetto alle fonti di confronto) di polveri tra 0,05 e 0,007 micron.

La tabella non può mostrare il contributo complessivo (polveri primarie e polveri secondarie) in quanto le varianti in gioco, a partire da quelle meteoclimatiche locali, anche quando quantificabili, determinerebbero una estensione dei range di “contributo emissivo”. La tabella mostra comunque dei range di emissione molto ampi (fino quattro ordini di grandezza) ad eccezione degli inceneritori lasciando ai risultati dello studio la caratterizzazione di dettaglio e le conseguenti informazioni nuove. In verità non è chiaro il motivo per cui si presenta una figura del genere se non per evidenziare l’ampiezza della incertezza ovvero la diversità tra diversi impianti (di diversa età, tecnologia, funzione e sistemi di abbattimento). Come si vedrà più avanti, rispetto al contenuto della figura 6 gli esiti dello studio allargano verso sinistra la barra della concentrazione delle PU da inceneritori (10 4 particelle per cm-3 anziché 105) per sancire un miglioramento delle prestazioni dei moderni inceneritori rispetto alle altre filiere energetiche che utilizzano combustibili.

4) Campagne di misura

Nella presunzione che siano stati utilizzati i medesimi sistemi di campionamento e analisi, che i dati ricavati siano stati validati e trattati per poter essere confrontabili tra loro, non avendo dubbi sulla serietà e correttezza tecnica degli estensori, l’aspetto di maggiore interesse nello studio è il confronto dei risultati sul campo tra i diversi impianti esaminati, mentre, come già detto, appare di minore valenza (in quanto dotato di maggiore incertezza) il confronto tra aria comburente (aria ambiente) ed emissioni. Nella determinazione dei diversi impianti esaminati viene effettuata una scelta non condivisibile, la campagna sperimentale ha riguardato i seguenti impianti di combustione:

-  caldaie per riscaldamento domestico a biomassa;
-  caldaie per riscaldamento domestico a gasolio;
-  caldaie per riscaldamento domestico a gas naturale;
-  caminetto chiuso a legna di piccola potenzialità;
-  termo-utilizzatori di grande taglia, nella fattispecie tre impianti realizzati nell’ultimo decennio, con caratteristiche tecnologiche in linea con la migliore tecnologia disponibile.

In altri termini viene preso in esame da un lato un grande impianto, soggetto ad obblighi normativi restrittivi, e dall’altro impianti di piccole dimensioni, nel settore civile, e con diversa normative come pure con veicoli a diversa motorizzazione. Un confronto del tutto disomogeneo per filiera, caratteristiche tecnologiche e normative. Si confronta l’elefante con dei “moscerini” senza che ne venga spiegato il motivo e il senso. Tale scelta è probabilmente dovuta alla disponibilità di impianti agevolmente utilizzabili per la ricerca presso la Stazione Sperimentale Combustibili ma ciò non è una motivazione per restringere l’attenzione alle tipologie impiantistiche rispetto ad impianti analoghi a un impianto di incenerimento. Paradossalmente non viene considerato un dato da tempo presentato a favore degli impianti di incenerimento ovvero che questi non sarebbero più impianti di smaltimento e il loro scopo principale sarebbe costituito dal “termoutilizzo” dei rifiuti per produrre energia. Se questa era la filosofia di fondo il confronto andava svolto con impianti termoelettrici alimentati con combustibili fossili di dimensioni paragonabili e dotati delle migliori tecnologie disponibili. Questo avrebbe permesso non solo di confrontare la entità delle emissioni delle diverse sorgenti ma anche valutare i fattori di emissione per unità di energia prodotta. Confronti che non sono possibili con la scelta fatta nello studio (i cocomeri con le mele non sono agevolmente confrontabili) né si vede di quale utilità sia il confronto con fattori di emissione (numero di particelle) per grammo di combustibile impiegato nelle diverse fonti senza considerare gli utilizzi dell’energia (termica e/o elettrica) e confrontare i relativi rendimenti (v. figura 15 dello studio). Nelle slide di presentazione dei primi risultati (Milano, 22.05.2009) si indicava infatti la previsione dell’estensione dello studio a :
-  turbogas
-  centrali a combustibile fossile
-  centrali a biomasse
-  termo-utilizzatori con altre tecnologie di trattamento fumi
-  varietà di caldaie per riscaldamento ambienti esterni e confinati. Attendiamo pertanto con interesse i risultati dell’estensione dello studio alle tre tipologie impiantistiche effettivamente confrontabili con impianti di incenerimenti per una migliore valutazione dei risultati di quello in esame (sempre che si trovi un finanziatore disinteressato).

Altro aspetto, esplicitamente non considerato (non oggetto) dallo studio, è la formazione di particolato secondario. Così si esprime lo studio in proposito:

“I fumi emessi in atmosfera da impianti di combustione alimentati con combustibili fossili, legna e più in generale con qualsiasi materiale contenente carbonio e idrogeno (come i rifiuti) contengono specie chimiche allo stato gassoso che, una volta raffreddate e diluite dall’aria ambiente, danno origine a processi di nucleazione e condensazione che generano ulteriori polveri ultrafini e nanoparticelle. Questi processi avvengono tipicamente in atmosfera, a valle dell’espulsione dei fumi dal camino dell’impianto. Le polveri ultrafini da essi generate costituiscono la frazione condensabile o “secondaria”, che si aggiunge a quella “primaria” costituita dalle particelle già presenti al punto di emissione. La quantità di polveri ultrafini di origine secondaria può essere estremamente rilevante, da cui la necessità di tenerne debito conto per valutare correttamente le emissioni di un dato impianto o processo. (...) Naturalmente le PU, una volta immesse in atmosfera e dopo che si sono esauriti i processi di formazione secondaria in prossimità della sorgente, sotto l’azione di trasporto e diffusione atmosferica iniziano un viaggio in cui possono continuare i processi di nucleazione e condensazione. Ad essi si possono aggiungere in varia misura fenomeni di coagulazione, agglomerazione, trasformazione ed interazione con altre specie e rimozione da parte di ostacoli. Questa complessa fenomenologia rende così particolarmente complicato stabilire il ruolo delle sorgenti sull’effettiva presenza di ultrafine in atmosfera. Su quest’ultimo, difficile tema, che esula dagli obiettivi di questo studio, le conoscenze sono ancora molto parziali e frammentarie, cosicché la (eventuale) connessione tra emissioni e presenza in atmosfera è al momento estremamente vaga e incerta.” , il neretto è nostro.

Questo confine invalicato dello studio va tenuto in conto in particolare quando si valutano le conclusioni dello studio. Le polveri secondarie non sono state infatti “tenute in debito conto per valutare correttamente le emissioni” degli impianti considerati . Quindi i risultati vanno valutati anche considerando tale aspetto oltre a quello della tipologia di impianti confrontati. A dire il vero nello studio si afferma di aver effettuato prove a freddo, in diverse condizioni di diluizione e a caldo “finalizzati all’identificazione del contributo della componente condensabile”, inoltre le prove svolte per valutare l’efficienza di un filtro a maniche di un inceneritore sono state svolte anch’esse per tenere conto della componente condensabile ovvero della componente gassosa che può contribuire alla formazione di polveri ultrafini su particelle carboniose già formate. Un campionamento ottimale di polveri con le finalità dello studio in esame deve ricorrere a forme di “simulazione” dell’abbassamento della pressione e della temperatura per favore la condensazione di gas e vapori, quello che viene raccolto in tali condizioni è un “aerosol potenziale” ma che non può contenere quella parte di aerosol che si formerebbe per via fotochimica o per ulteriori processi di accumulo ed in particolare di condensazione di gas “precursori” (ossidi di azoto, ossidi di zolfo, composti ammoniacali).

Un dato che comunque emerge dal confronto dei valori riportati nelle tabelle 2 e 3 che mostrano i valori (numero di particelle per cm-3) negli impianti termici civili e negli inceneritori esaminati, è che la componente di nanoparticelle (inferiori a 50 nm) è significativamente maggiore negli inceneritori rispetto agli altri impianti (eccezion fatta per quelli alimentati a gasolio in condizioni di prova a freddo a carico nominale) ed in particolare confrontando la combustione di rifiuto con combustibili solidi (pellet o “caminetto chiuso” a legna). Per dirla con gli estensori “le presenze di nanoparticelle appaiono relativamente consistenti”. Ad esempio nel caso del caminetto chiuso il range percentuale delle particelle inferiori a 0,05 μm è tra 8 e 19 % (v. tabella 2) mentre nell’inceneritore di Milano, nelle stesse condizioni di prelievo, sono tra il 79 e il 93 % (v. tabella 3).

Le differenze tra misure con “diluizione” (a freddo ovvero permettendo una iniziale nucleazione delle parti semivolatili e “simulando” la produzione di parte del particolato secondario) e a caldo (polveri “tal quali”, come si presentano nel flusso dei fumi esaminato) evidenzia l’effetto di formazione di particolato secondario (da 2 a 3 volte circa il particolato primario originario) anche nel caso degli impianti di incenerimento (effetto peraltro non pienamente confrontabile, se non per l’impianto civile alimentato a gasolio, con gli altri impianti considerati).

Come detto i risultati dello studio abbassano le emissioni di PU da inceneritori (figura 6) da 105 a 104 particelle cm-3 , confermano i valori per il gasolio (106 - 107 particelle cm-3) e delle biomasse (pellet : 107 particelle cm-3) e i valori più bassi per il metano (103 particelle cm-3). Il dato relativo alle biomasse è da tenere in conto in relazione alle numerose richieste di impianti di produzione energetica a biomasse ed in particolare per quelli proposti senza o con limitati sistemi di trattamento dei fumi (di norma giustificati per le taglie ridotte dei progetti).

5) Ruolo dei filtri a manica

L’efficienza dei filtri in tessuto (differenza tra analisi a valle e a monte) e relativa distribuzione dimensionale dimostrerebbero che tale sistema possiede una resa di abbattimento comparabile (ma comunque inferiore) tra polveri ultrafini e nanopolveri. E tanto basta per gli estensori per “non escludere” l’incenerimento nelle opzioni di trattamento/smaltimento rifiuti proprio in virtù delle capacità di intercettazione di questo sistema di abbattimento (leggi, trasferimento delle particelle da una fase gassosa a una solida, da smaltire). Le indicazioni a commento della figura 9 non sembrano però essere esattamente quelle ricavali dalla figura, o meglio l’affermazione non è coerente con le finalità indicate nello studio. Nel testo si afferma che “la presenza del depolveratore si traduce in tal modo in una rimozione dell’ultrafine e del nanoparticolato (20-100 nm) con un’efficienza media del 97% e delle submicroniche (100-1000 nm) con efficienza compresa nell’intervallo 98-99,99% (Figura 9).” Interesse dichiarato nello studio però era anche il comportamento distinto tra particolato ultrafine (fino a 100 nm) e nanoparticelle (fino a 50 nm). Dalla figura possiamo vedere che l’efficienza di intercettazione a 100 nm è pari a circa 98,8 % e a 50 nm è circa 97,21 %.

Non è chiaro, inoltre, per quale motivo, nella valutazione del rendimento di abbattimento del nanoparticolato da parte del filtro a maniche, vengono considerate le dimensioni delle particelle tra 20 e 100 nanometri (0,02 e 0,1 μm) quando il limite inferiore di rilevabilità dello strumento utilizzato è 7 nanometri. Quanto sopra in presenza di una moda (valore, nell’analisi statistica dei dati misurati, che compare più frequentemente) riportata nella tabella 3 della sintesi dello studio (tabella 3, sopra riprodotta) che è generalmente di 21 nanometri e, nel caso dell’inceneritore di Milano, scende a 17 nanometri per i fumi misurati a caldo.

Nello studio si sottolinea che la componente primaria delle polveri ultrafini e delle nanopolveri riscontrate in entrata (aria comburente o aria ambiente) rispetto a quelle emesse dall’inceneritore sarebbero numericamente superiori (in due casi su tre), in altri termini il sistema di abbattimento fumi è tale per cui, per questa componente (altro discorso, comunque non affrontato nello studio, sono le polveri di dimensioni maggiori, ed in particolare le PM10) vi sarebbe un effetto di riduzione grazie all’impianto (perlomeno nei casi di Milano e Brescia, non nel caso di Bologna - v. tabella 3).

Il forte decremento di efficienza a 95,14 % per il nanoparticolato a 20 nm ci conferma invece che alla riduzione dimensionale delle polveri corrisponde una minore efficienza del filtro oltre al fatto che lo studio non è in grado di darci indicazioni circa il particolato secondario. Rispetto alla efficienza riportata nella figura 7, da letteratura, dobbiamo pertanto supporre che il filtro esaminato (non sappiamo se i valori riportati riguardano tutti gli inceneritori considerati o uno di essi), per le polveri al di sotto di 100 nm, aveva una efficienza inferiore, visto che viene indicata una efficienza di rimozione minima in queste classi dimensionali del 99,7 % circa.

I valori di polveri ultrafini “aria ambiente” utilizzati per il confronto con le emissioni degli inceneritori non vengono dettagliati in merito alle metodologie di campionamento e analisi (anche rispetto ai momenti di campionamento e analisi delle emissioni) come già detto. Rimanendo al dato milanese si segnala che studi condotti dallo stesso DIIAR del Politecnico nel corso del 2008 (Progetto PARFIL III annualità) hanno indicato “concentrazioni in numero di particelle rilevati in siti di fondo urbano tra 1,3 * 10 4 e 2,1 * 10 4, mentre le concentrazioni medie misurate in siti di traffico si collocano in un intervallo compreso tra 2,7 * 10 4 e 5,3 * 10 4 cm-3”. Il valore di 32.059 particelle per cm-3 (3,2 * 10 4 ) indicato in tabella 3 è pertanto un valore in siti di traffico (la posizione dell’inceneritore Silla2 è nelle immediate vicinanze della tangenziale ovest). Il messaggio dello studio è pertanto che l’impianto, nel suo complesso, riduce la presenza di una parte delle particelle ultrafini (come detto non è stata misurata/stimata parte della componente secondaria) rispetto ad un fondo ambiente che risente di contaminazione da traffico, il confronto con i siti di fondo, a minore contaminazione, determinerebbe una maggiore concentrazione nel caso della emissione dell’inceneritore o una sostanziale parità. Il sottinteso, amplificato da alcuni media, è che gli inceneritori (i filtri a maniche) puliscono l’aria. [7] La tesi dello studio suggerirebbe che la presenza di polveri ultrafini nelle emissioni è funzione del contenuto delle stesse polveri nell’aria ambiente e dell’efficienza dei sistemi di abbattimento che sarebbero in grado di abbattere non solo l’equivalente di tutto il particolato fine prodotto dai processi di combustione dei rifiuti ma anche una quota del particolato presente nell’aria comburente. Da una tale tesi ne deriverebbe che per “pulire” l’aria urbana basterebbe installare dappertutto filtri a manica accompagnati da impianti di combustione efficienti e/o con combustibili adatti (inceneritori e centrali termoelettriche a gas naturale). Il problema non è la presenza di fonti di inquinamento (da ridurre e prevenire) ma l’entità e il tipo dell’intervento “end of pipe” .

Non essendo indicato nella versione dello studio disponibile, dobbiamo anche supporre che i dati riportati in termini di concentrazione in emissione e in aria ambiente siano stati ricondotti alle medesime unità di misura ovvero entrambi “normalizzati” [8] alle stesse condizioni e resi omogenei in termini di espressione. Anche su questo aspetto dovremo attendere la disponibilità dello studio nella sua interezza. Quello che è pacifico è che non sono stati presi in considerazione (nelle emissioni e nell’aria ambiente) polveri di dimensioni superiori a 0,1 micron ed in particolare il “taglio” dimensionale usuale delle PM10 per l’aria ambiente e il taglio, peraltro non confrontabile, delle polveri totali sospese, oggetto di analisi nei sistemi di monitoraggio delle emissioni (SME) degli inceneritori. E’ altrettanto pacifico che, anche fronte di concentrazioni elevate di PM10 ambientali (es. 100 microg/mc) concentrazioni considerate come migliori tecnologie disponibili intorno a 2.000 microg/Nmc (2 mg/Nmc) o anche inferiori, sono almeno superiori di un ordine di grandezza. Come detto, nonostante le premesse, lo studio non si è occupato di tutte le polveri fini e quindi non fornisce elementi aggiuntivi tali da completare il quadro rispetto a quanto ricavabile dai dati disponibili.

In termini di caratterizzazione delle componenti (primarie) di polveri ultrafini e delle nanoparticelle emesse dagli impianti di incenerimento (o di uno di quelli presi in considerazione, non vi sono dettagli nella sintesi disponibile) rispetto alla aria ambiente esaminata emergono alcuni aspetti. Tra i parametri considerati il carbonio viene espresso come totale, con questa espressione si considera probabilmente sia il carbonio elementare che la quota di carbonio presente nel materiale organico rendendo difficilmente confrontabili i dati con le rilevazioni svolte in passato nella realtà milanese (progetto Parfil), la elevata percentuale di componenti non determinate (fino al 42,1 % nella componente ultrafine dell’aria ambiente) rende difficile, se non impossibile, un confronto esauriente. Nel caso dell’inceneritore emerge comunque una maggiore presenza di metalli e la presenza di una componente di alogeni (cloro) importante ai fini di una valutazione di tossicità (per quanto abbia senso un confronto sulla tossicità di una componente di una emissione e dell’aria ambiente). Ai fini di una valutazione di tossicità sarebbe stato utile disporre di analisi specifiche della componente carboniosa nei campioni esaminati come pure considerare la composizione delle polveri di maggiore dimensione per l’inceneritore e per l’aria ambiente. Non è stata esaminata la composizione delle polveri degli altri impianti oggetto di analisi (né di impianti termici e termoelettrici effettivamente paragonabili a un inceneritore). In altri termini questo tema, pur essendo l’unico, con diretto riferimento agli inceneritori, esplicitamente dichiarato come finalità dello studio non viene sviluppato in modo adatto a migliorare le conoscenze in materia. Una analisi tossicologica (e di confronto con impianti paragonabili) fornirebbe un elemento importante per valutare l’apporto degli impianti di incenerimento, in quanto andrebbe oltre il dato quantitativo (concentrazione di particelle), già di per sé conoscenza utile da impiegare per valutazioni sanitarie, per fornire un dato qualitativo (tossicità delle particelle emesse dai diversi impianti). In particolare sarebbe interessante conoscere la composizione delle particelle ultrafini derivanti dalla combustione di gas naturale per verificare se questo combustibile, oltre ad essere quello che produce un numero inferiore di particelle è anche quello con un minore arricchimento di sostanze con maggiore tossicità.

Comunque sia le informazioni aggiuntive che fornisce lo studio riguardano, di fatto, la composizione delle polveri (componente ultrafine e nano particelle) delle emissioni degli inceneritori. La componente di dimensioni inferiori è più ricca di nitrati (un primo effetto della parziale formazione di particolato secondario già in fase di emissione) della componente carboniosa, mentre i metalli, eccezion fatta per lo zinco, presentano un minore adsorbimento sulle particelle più piccole rispetto alle ultrafini. Questo potrebbe avere delle implicazioni di carattere tossicologico che non vengono affrontate (né era oggetto dell’incarico) nello studio in questione.

Conclusioni dell’indagine

Proviamo a commentare brevemente le considerazioni conclusive in rapporto a quanto emerge dallo studio ovvero dai risultati delle misure sperimentali effettuate.

La combustione è una delle tante attività antropiche che, assieme ad una serie di fonti naturali, emette anche particolato ultrafine. (...) Al momento non esistono tuttavia indicazioni documentate sulla connessione tra specifiche attività di combustione fissa, presenza di particolato ultrafine in atmosfera e conseguente esposizione della popolazione. Per quanto riguarda le combustioni mobili, è possibile individuare nel traffico veicolare una fonte certamente significativa, nel senso che in prossimità di flussi rilevanti di traffico si apprezzano presenze elevate di PU rispetto al fondo urbano

Lo studio non ha interessato né ha voluto svolgere un censimento delle fonti di particolato ultrafine. La combustione volontaria (in tutte le forme) rappresenta almeno il 69 % delle fonti di PM10 italiane [9] (anche senza considerare il settore dei rifiuti) e non esistono, allo stato, censimenti riferiti alle polveri ultrafini e a nanopolveri. Lo studio non aggiunge inoltre conoscenze sul contributo delle fonti di combustione fisse e la presenza di particolato ultrafine in atmosfera anche perché si è occupato quasi esclusivamente di particolato primario ancorchè allargando il range dimensionale alle polveri di minore dimensione e alla frazione condensabile.

Per ciò che riguarda le combustioni fisse gli elementi che regolano l’emissione di PU sono principalmente la qualità del combustibile (si va dalla legna con emissioni importanti fino al gas che mostra i valori più bassi) e l’esistenza di apparati per la rimozione del particolato fine che, se si tratta soprattutto di filtri a manica, mostrano ottime prestazioni anche per le PU. (...) • le emissioni di particolato ultrafine (PU), inteso come il materiale di dimensioni tra 0,007 e 0,1 μm, sono influenzate in modo cruciale dalla qualità del combustibile, le modalità di combustione e la presenza e configurazione delle linee di depurazione;

Il ruolo dei sistemi di abbattimento è pacifico, lo studio ha confrontato impianti senza sistemi di abbattimento e impianti di incenerimento con sistemi di abbattimento a livello di migliori tecnologie disponibili, il confronto pertanto non è stato omogeneo a meno, appunto, di voler esclusivamente individuare il ruolo di sistemi dotati di sistemi di abbattimento specifici per le polveri rispetto a quelli che non li possiedono.

... le concentrazioni di PU rilevate all’emissione dei termovalorizzatori risultano generalmente collocate sugli stessi livelli, quando non addirittura inferiori, a quelli presenti nell’aria ambiente dei siti di localizzazione. L’unica eccezione è rappresentata dall’impianto dotato di unità di depurazione ad umido dei fumi, nel quale il leggero incremento appare attribuibile al pur modesto aumento nel contenuto di umidità del flusso gassoso.

Da questo confronto improprio, per i motivi illustrati incluse le modalità (non precisate) di monitoraggio dell’aria ambiente, emerge la filosofia di fondo degli estensori dello studio. Il problema dell’inquinamento ambientale (e del contributo della singola fonte) è determinato dalla presenza o meno e dall’efficienza dei sistemi di abbattimento. L’intervento di maggiore utilità è dotare le sorgenti inquinanti di tali presidi e “nulla osta” alla realizzazione di nuove fonti inquinanti purchè dotate di filtri a manica o altri sistemi (a seconda dell’inquinante preso in considerazione). Non c’è nulla nello studio che autorizzi a confermare come risolutivo tale approccio fallimentare alla tutela dell’ambiente. E’ pacifico, invece, che risultati efficaci sulla riduzione di contaminanti in atmosfera (es. sul piombo, sugli ossidi di zolfo) sono stati ottenuti eliminando o riducendo alla fonte il contaminante. Come già detto, inoltre, non vi sono stati approfondimenti idonei per una valutazione in termini tossicologici delle proprietà delle polveri emesse rispetto a quelle presenti in aria ambiente.

Per tutti gli impianti indagati le concentrazioni misurate risultano sistematicamente inferiori di almeno due ordini di grandezza rispetto a quelle rilevate per la combustione di legna e gasolio in caldaie civili e di poco superiori a quelle prodotte dalla caldaia a gas naturale;

Il confronto tra l’inceneritore e gli impianti termici civili considerati appare improprio. Il confronto andava svolto semmai su impianti di produzione di energia di taglia paragonabile e dotati di sistemi di combustione e di abbattimento con le migliori tecnologie disponibili. Il dato relativo ad impianti termici a biomasse, invece, può essere utile per evidenziare l’apporto potenziale di polveri ultrafini da parte di centrali a biomasse, finora sostanzialmente negato dai proponenti, e che spesso sono autorizzate senza prescrivere sistemi di abbattimento specifici per le polveri.

• analoghe considerazioni sono ricavabili dai fattori di emissione derivanti dalle misure e valutati in termini di numero di particelle per unità di massa del combustibile utilizzato, riportati in Figura 13. I valori attesi dai termovalorizzatori appaiono collocati su livelli allineati, quando non inferiori, a quelli tipici dei veicoli a benzina catalizzati e diesel con filtro antiparticolato;

Così come non sarebbe corretto una opposizione agli impianti di incenerimento esclusivamente o principalmente per il loro contributo nella emissione di polveri ultrafini e nanopolveri, non è corretto confrontare un inceneritore con altri fattori di emissione (impianti termici civili, automobili) per un unico parametro e utilizzare questo dato per suggerire che gli inceneritori non hanno un impatto significativo, diretto e indiretto, locale e globale.

• tanto nel settore delle utenze termiche civili che in quello dei termovalorizzatori, la componente condensabile presenta apprezzabili effetti nell’incrementare i livelli emissivi delle PU;

Lo studio ha fornito questo elemento importante senza poi svilupparlo adeguatamente; è un passo, pur parziale, per riconoscere l’importanza della valutazione dell’apporto delle emissioni sugli inquinanti secondari (polveri ma non solo). Tale aspetto viene di norma negato o negletto nelle relazioni progettuali e negli studi di impatto ambientale per impianti con combustione di qualunque combustibile, solido, liquido, gassoso, rinnovabile o non rinnovabile.

• le distribuzioni dimensionali in numero appaiono caratterizzate dalla larga prevalenza di frazioni ultrafini e nanopolveri per tutto il complesso degli impianti indagati;

Pur considerando il confronto disomogeneo tra inceneritore e impianti termici civili, nel caso degli inceneritori dallo studio si ricava una maggiore componente nelle nanopolveri in particolare nei campioni a freddo, parzialmente indicativi dell’apporto secondario all’inquinamento ambientale. Anche questo è un risultato importante, che conferma una delle peculiarità degli inceneritori rispetto ad altre fonti inquinanti.

• il depolveratore a tessuto si conferma un potente strumento di depolverazione anche per le componenti ultrafini, mostrando di poter controllare efficacemente tanto le particelle primarie già presenti nel flusso che quelle derivanti da processi di nucleazione, condensazione e coagulazione per raffreddamento e diluizione del flusso stesso;

Le prestazioni dei filtri a maniche si abbassano in relazione alla riduzione delle dimensioni delle particelle, questo è confermato dallo studio in questione. Nella sintesi non vi è un dettaglio inerente le condizioni di funzionamento degli impianti considerati come pure di esercizio dei sistemi di abbattimento. Lo studio non sembra aver considerato inoltre, il ruolo della manutenzione e del controllo dell’esercizio di tali sistemi di abbattimento. In letteratura sono evidenziati significative variazioni (per polveri fino a dimensione di 2,5 micron, non vi sono indicazioni per polveri di dimensioni inferiori) nell’efficienza di abbattimento in relazione anche alla frequenza di pulizia dei filtri. Tali aspetti non sono stati oggetto di studio.

la composizione chimica della componente nanoparticolata ed ultrafine emessa dalla termovalorizzazione di rifiuti urbani risulta del tutto congruente con le caratteristiche del combustibile e le vicende del processo di combustione, con una presenza di cloruri e metalli, fra cui, in particolare, zinco, ferro e cromo, in linea con i contenuti tipici caratteristici del rifiuto alimentato.

Il dato non sorprende, lo studio non confronta la composizione chimica delle polveri da inceneritore con le polveri da altri impianti, né con quelli esaminati nello studio (come detto, comunque, impropri) né con impianti con caratteristiche paragonabili come centrali termoelettriche. Per limiti intrinseci inoltre non sono possibili confronti o valutazioni di dettaglio né chimico-fisici né tossicologici. Lo studio rimanda alla necessità di ulteriori approfondimenti sul tema.

Pertanto, il complesso delle valutazioni che emergono dallo studio evidenziano come l’attività di termovalorizzazione di rifiuti, pur contribuendo come tutte le combustioni alle emissioni di PU, non mostra allo stato attuale elementi scientifici, né probanti né sospetti, per escludere a priori questa tecnica di smaltimento e recupero di energia in quanto fonte particolarmente importante di nano polveri.

Le motivazioni di opposizione “a priori” (e non solo a priori) alla realizzazione degli impianti di incenerimento sono alquanto più articolate sia per quanto riguarda l’impatto ambientale, diretto e indiretto, dei singoli impianti sia del sistema gestionale dei rifiuti (e della produzione di merci) che gli inceneritori sottendono e perpetuano. La dizione utilizzata, appare alquanto singolare e impropria per una ricerca, anziché evidenziare il contenuto dei nuovi dati emersi grazie allo studio si presentano delle conclusioni “non escludenti a priori” l’uso di una determinata tecnologia . Questa conclusione lapalissiana è stata agevolmente modificata dai media come una completa “assoluzione” della presenza di impatti ambientali significativi dalle attività di incenerimento. Ognuno ha proprie responsabilità per quello che afferma ma, a partire dagli obiettivi dichiarati della ricerca (contrastare alcune parti del mondo ambientalista) alle conclusioni espresse in modo anomalo, emerge un voluto indirizzamento a che la ricerca fosse considerata come probante che gli “inceneritori non fanno male”. Una lettura non autorizzata da una lettura non superficiale dello studio stesso.

Per ciò che riguarda il fronte dell’esposizione e degli effetti sulla salute, ferma restando la doverosa attenzione al ruolo ambientale del particolato ultrafine e dei suoi componenti, dall’analisi delle implicazioni epidemiologiche e tossicologiche degli studi nel settore non emergono indicazioni di rischi particolari attribuibili alle PU provenienti da combustione dei rifiuti, purché si tratti di impianti in linea con la migliore tecnologia disponibile.

Le migliori tecnologie disponibili, come recitano le direttive europee in materia, costituiscono condizioni necessarie ma di per sé non sufficienti - in tutte le condizioni - per garantire una elevata protezione della popolazione. Il sottinteso che, ove un impianto sia dotato di MTD, non determini rischi particolari (e quindi non vi siano motivi ostativi per realizzarlo/esercirlo) non ha un fondamento né normativo né tecnico (non a caso gli impianti di incenerimento sono soggetti sia agli obblighi di valutazione di impatto ambientale sia a quelli derivanti dalle norme sulla riduzione e prevenzione integrata dell’inquinamento).

Come già detto lo studio conferma che, in confronto agli altre fonti di emissioni “similari”, gli inceneritori sono caratterizzati da maggiori emissioni proprio nel campo dell’ultrafine cioè quello plausibilmente più pericoloso in assoluto. Del resto nelle conclusioni dello studio, nella precedente versione datata maggio 2009, si affermava che "Per ciò che riguarda più specificatamente l’incenerimento di rifiuti, tale attività ha certamente un ruolo nella problematica dell’ultrafine". Tale frase non compare più nella versione dell’ottobre 2010 ma gli autori sono costretti ad ammettere che "...L’epidemiologia del particolato sospeso, e gli attuali riferimenti normativi che ne derivano, sono tutti basati sulla presenza in atmosfera valutata in termini di concentrazione in massa che, viste le robuste relazioni tra livelli di concentrazione ed effetti sulla salute, costituisce indubbiamente un ragionevole indicatore della tossicità. Tuttavia, esiste il legittimo dubbio che la concentrazione in massa non sia il parametro adeguato per rappresentare gli effetti della componente ultrafine, che agirebbe non in proporzione alla massa, che è trascurabile, ma al numero e alla superficie specifica. In tal caso, gli effetti sulla salute non sarebbero compiutamente rappresentati dalle misure convenzionali di particolato, e di conseguenza le strategie messe in campo per la riduzione delle emissioni della componente grossolana (PM10) e fine (PM2.5) potrebbero essere inefficaci per la componente ultrafine...". Sotto questo profilo lo studio in esame non aggiunge conoscenze e le conclusioni riportate sono basate esclusivamente sulla assenza di nuovi dati e non certo dall’emergere, dallo studio, di nuove conoscenze epidemiologiche sulle PU e le nano polveri. Lo studio del Politecnico di Milano ha, seppure in modo incompleto, evidenziato che gli inceneritori emettono PU con una composizione chimica diversa da quella dell’aria ambiente (considerata nello studio come aria comburente) per la presenza una maggiore componente di metalli e di cloruri (quindi anche dei congeneri dei clorurati organici). In proposito vale la pena di ricordare che anche diossine e furani, come noto sono comporti di estrema tossicità, caratterizzano in modo peculiare la componete ultrafine del particolato prodotto dagli inceneritori: la figura di seguito riportata mette in luce che più dell’80% TEQs con le particelle aerodisperse di diametro inferiore al 2 μm.

(Chao, M.R., et al., Size distribution of particle-bound polychlorinated dibenzo-p-dioxins and dibenzofurans in the ambient air of a municipal incinerator. Atmospheric Environment, 2003. 37(35): p. 4945-4954.)

In conclusione lo studio da una parte fornisce l’ennesima  prova che rispetto ad altre fonti inquinanti, l’incenerimento si caratterizza come quella in cui il rapporto tra le polveri emesse è più “spostato” verso le polveri di dimensioni inferiori, allo stesso tempo non fornisce nuovi elementi per una valutazione tossicologica (ed epidemiologica) della problematica della esposizione alle PU emesse anche dagli inceneritori. Fornisce, invece, informazioni tali da suggerire l’urgenza della necessità di approfondimenti in merito alla caratterizzazione tossicologica delle particelle emesse (primarie e secondarie) sia relativamente all’aspetto dimensionale che per la composizione (e bioreattività) chimica rispetto alle particelle di dimensioni maggiori (> PM2,5) oggetto di studi e norme.

A cura di Medicina Democratica

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.: Note inerenti lo studio “Emissioni di polveri fini e ultrafini da impianti di combustione. Sintesi finale. Ottobre 2010” :.
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