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oggi è il: 19|04|2024


Per ricordare Michelangiolo Bolognini
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Per ricordare Michelangiolo Bolognini , medico ed Epidemiologo di Medicina Democratica, scomparso il 25 agosto scorso sono previste varie iniziative da parte di MD (tra cui una borsa di studio per un ricercatore che studi l’eziologia dei tumori del pancreas). Sapremo dare indicazioni precise prossimamente.

Michelangiolo è stato anche ricordato il 15-16-17 settembre durante l’Altermeeting sui rifiuti (contro gli inceneritori).

Tra il materiale distribuito uno splendido intervento (del 1983) di Alex Langer, uno dei fondatori del movimento ecologista(che ci lasciò anche lui giovane, tragicamente) su Ecologia e Movimento operaio: è attualissimo!!

Ho pensato di farlo girare unitamente a uno splendido contributo di Renzo Tomatis (grande scienziato che Michelangiolo citava spesso e che ci ha lasciato anche lui qualche anno fa) su Giulio Maccacaro riportando tra l’altro l’ attualità del MAC (Massima Concentrazione Accettabile di una sostanza) che deve essere zero per i cancerogeni.

Fra qualche giorno ricorderemo anche Pietro Mirabelli nel secondo anniversario della tragica morte per infortunio sul lavoro.

Saluti a tutti

Gino Carpentiero


Ecologia e movimento operaio - Un conflitto inevitabile?

Alex Langer-1.10.1983, Ottobre 1983, VerdeUIL

E’ un vero e proprio luogo comune truffaldino, quello che vorrebbe in contrasto immanente il movimento ecologico con quello operaio, o più in generale l’ecologia con il lavoro.

Ma tant’è che passa per acquisita la contraddizione tra risanamento ambientale e posti di lavoro, e vengono citati gli operai della Farmoplant di Massa, dell’ACNA di Cengio o della Stoppani di Genova per dimostrarla: tutti casi dove gli operai ed i sindacati erano mobilitati a difendere la continuità produttiva di impianti chimici gravemente inquinanti, di cui la popolazione ed "i verdi" chiedevano la chiusura. Stessa storia a Montalto di Castro: operai e sindacati in piazza per far portare a termine la "promessa" centrale nucleare, ecologisti al contrario mobilitati a bloccare l’industria nucleare. E stessa storia anche con quegli agricoltori che vedono nel referendum contro i pesticidi un attentato al loro lavoro ed al loro reddito.

Se si accettasse questa logica, avrebbero avuto ragione quelle migliaia e migliaia di giovani ufficiali della prima guerra mondiale che erano assai delusi dalla fine della guerra perchè la pace non riservava loro un ruolo altrettanto prestigioso ed anzi li minacciava di disoccupazione: ma si possono davvero fare (o prolungare) le guerre per risparmiare il rischio della disoccupazione ai militari ed agli addetti dell’industria bellica? O non è piuttosto questa la masssima alienazione che il movimento operaio dovrebbe combattere?

Come possono gli stessi operai chiedere di continuare una produzione o un’attività nociva a loro stessi ed agli abitanti della loro città, ai loro figli, alla gente in generale - ed il tutto, ovviamente, perchè qualche impresa e qualche imprenditore ne tragga profitto?

Certo, il ricatto della disoccupazione, si sa, ma qualsiasi lotta del movimento operaio ha sempre dovuto fare i conti col ricatto del licenziamento, della fuga dei capitali, delle chiusure di impianti, della razionalizzazione e conseguente riduzione di manodopera, della ristrutturazione anti-operaia. Perchè una lotta per aumenti salariali o contro il cottimo dovrebbe essere congeniale al movimento operaio più di una lotta per la salute in fabbrica e per la salubrità delle lavorazioni con riguardo anche a chi sta fuori dalla fabbrica?

In ogni caso intorno al conflitto strutturale tra operai e padronato si scontrano esigenze contrapposte: l’impresa tenderà a minimizzare i suoi costi ed a massimizzare i suoi profitti sia a spese dei lavoratori che a spese dell’ambiente, degli acquirenti e consumatóri dei suoi prodotti o servizi e della collettività in generale.

Cercherà di risparmiare e di guadagnare sulle tasse, sul costo del lavoro, sui costi dei trasporti, sui costi ambientali... scaricandoli, per l’appunto - nei casi in cui e finché potrà farlo - sugli operài, sulla collettività é sull’ambiente.

Gli operai, a lóro volta, tenderanno a minimizzare la fatica, il tempo, l’alienazione impiegati per l’impresa- ed a massimizzare il salario ed i loro spazi di partecipazione e di libertà.

Ma perchè dovrebbero allearsi col padrone per sostenére e difendere produzioni nocive a loro stessi ed al prossimo?

Solo la logica distorta del produttivismo e la resa - questa sì, davvero, alienante!- all’ottica padronale ed aziendale può far scegliere gli operai ed i sindacati di stare dalla parte del produttivismo padronale, cioè dell’indifferenza verso il cosa e come si produce,purché si produca e si venda il prodotto !

Ma esiste anche un’altra tradizione nel movimento operaio: quella che annovera la rivendicazione di fabbricare aratri invece che cannoni e di costruire case popolari invece che alloggi di lusso; quella che.’affermava’che la nocività non si contratta e la salute non si vende; quella che si opponeva tout court alla logica del produttivismo ("di cottimo si muore", "no alla flessibilità ed alla piena utilizzazione degli impianti"...).

La tradizione di quei filoni della lotta dei lavoratori che pretendevano - giustamente - di pronunciarsi sulla qualità sociale del lavoro, sui suoi fini, sui limiti della vendibilità della forza-lavoro, oltre che sul suo prezzo.

Utilizzando un’espressione oggi corrente nel dibattito sull’ecologia, si potrebbe dire che anche nel movimento operaio si ritrova il filone in cui prevale l’attenzione alla "quantità" e quello, invece, più attento alla "qualità": e se indubbiamente il sindacalismo si è avvicinato sempre di più alla mera contrattazione della quantità (di lavoro, di retribuzione, di tempo, di servizi e prestazioni sociali, ecc.), non va sottaciuta e rimossa tutta quell’altra faccia del movimento operaio e dello stesso sindacalismo che è intervenuta e continua ad intervenire sulla qualità (del lavoro e delle condizioni di lavoro, del prodotto, del tempo lavorativo o libero dal lavoro, della stessa retribuzione e delle prestazioni sociali connesse, : ecc.).

E se finora la "qualità" cui il movimento operaio prestava attenzione - quando ne prestava - era essenzialmente riferita alla stessa classe operaia (no al lavoro notturno, ai ritmi troppo gravosi, al lavoro dei fanciulli, gli infortuni sul lavoro, i trasporti e la mensa...) e riguardava quindi in un certo senso la "qualità di classe" o, nelle migliori ipotesi, la "qualità sociale" del lavoro, oggi si impone sempre di più la necessità di badare anche e forse persino prioritariamente alla "qualità ecologica" del lavoro e delle sue condizioni.

Lo esige non solo l’emergenza ambientale, in generale, ma lo stesso degrado alienante del lavoroj da un lato, e le potenzialità di riscatto e di risanamento, dall’altro. (Cosa che, del resto, dovrebbe valere altrettanto anche per il versante ’imprenditoriale, e comincia - infatti - ad affermarsi qua e là.).

Il movimento ecologista contiene, dùnque, un grande invito al movimento operaio: quello a rompere la subalternità al produttivismo e ad occuparsi, finalmente, anche della qualità (ecologica ed umana, oltre che sociale e di classe) del lavoro e delle sue condizioni. E chiede una preziosa ed indispensabile collaborazione: chi meglio dei lavoratori addetti (e dei loro sindacati) potrebbe informare e mettere in guardia i cittadini e gli ambientalisti, quando una produzione è pericolosa per la salute di chi ci lavora, di chi sta intorno e di chi consuma.il prodotto?

Non c’è bisogno di pensare a Seveso (dove, ricordiamocelo, sindacati ed operai non avevano mai allertato la popolazione del pericolo che la gente del posto correva!) o alla centrale nucleare di Caorso, basta riferirsi - assai più modestamente - ai contenuti dello scatolame alimentare, dei flaconcini di shampoo, alle fibre sintetiche, ai detersivi, ecc.

Quel che la gente e gli ecologisti oggi chiedono ai lavoratori di tutti i settori (perchè non ce n’è alcuno che sia immune alla qualità ecologica!) ed al movimento operaio e sindacale organizzato è di essere anche occhi ed orecchi, nasi e gole per conto del "popolo inquinato" (fatto in grandissima parte proprio da famiglie di lavoratori!), e di aiutarlo a difendersi contro gli inquinatori ed i ladri di salute. Di lottare, quindi, per non dover più continuare produzioni nocive ed inquinanti, pericolose ed a rischio. Quanto spazio e quale gamma per un movimento operaio e sindacale che voglia rompere l’alienazione e contare davvero, cominciando ad interloquire e contrattare, lottare e autogestire in tema di risanamento e qualità ambientale del lavoro!

E quale sfida per il movimento ecologista, che dovrà fare della solidarietà attiva e fantasiosa con i lavoratori disposti a "finire la guerra" ed a "riconvertire l’industria bellica a scopi pacifici" un suo obiettivo di primaria importanza, decisivo per uscire dal tunnel della chimica pesante, delle produzioni energetiche ad alto rischio ed alto inquinamento, dèlie mega-opere-pubbliche, della stradomania, della dittatura dell’automobile e così via! L’idea di un globale disegno, di risanaménto , del lavoro ed anche di una grande "cassa integrazione verde" perchè la collettività si assuma,giustamente, gli oneri di tale riconversione e non gli scarichi semplicemente sugli operai che - spesso loro malgrado! lavorano negli impianti nocivi si fa sempre più strada.

E’ tempo, dunque, che si infittiscano il dialogo e le iniziative esemplari tra ecologisti ed operai : (anche sindacalisti), ma anche tra ecologisti, operai ed imprenditori, per esplorare concretamente, e non necessariamente solo in situazioni di conflitto, il terreno della comune lotta per la qualità ecologica, oltre che sociale ed umana, del lavoro.

Vorrà dire prendere per le corna il toro dell’alienazione e lavorare per il disinquinamento non solo dell’ambiente, ma anche della vita di milioni di persone, dentro e fuori le fabbriche, gli uffici, i servizi, le campagne.

Nel ricordo di Michelangiolo Bolognini per l’avvio di un Forum contro tutte le nocività negli ambienti di vita e di lavoro.

Zero Waste Altermeeting Firenze

settembre 2012


TRATTO DA EPIDEMIOLOGIA E PREVENZIONE (www.epiprev.it)

Riflessioni su Giulio Maccacaro e i rischi attribuibili ad agenti chimici

Prevenzione primaria e MAC zero suscitano critiche e polemiche di una parte del mondo scientifico, come spiega Lorenzo Tomatis in questo editoriale, che riporta ai giorni nostri la questione della fiducia nelle prove, discussa da Tomatis in un articolo apparso su Epidemiologia & Prevenzione nel 1987. La rivista in questo numero pubblica anche l’articolo scritto oltre 15 anni fa, permettendo un confronto tra la situazione di allora e quella attuale.

L’affermazione di Maccacaro che «c’è solo un MAC scientificamente accettabile ed è quello zero»1 a suo tempo aveva suscitato scalpore e sconcerto, al punto che gli si erano schierati contro anche ricercatori ed epidemiologi che si ritenevano, o che venivano ritenuti «impegnati». Più cautamente e con meno immediatezza, ma con significato di fondo simile, l’OMS e poi l’IARC affermavano che non vi è un livello di esposizione a un cancerogeno al di sotto del quale si possa dire che non vi sia rischio per l’uomo.

L’affermazione gridata da Maccacaro dava scandalo, faceva insorgere compatta la formidabile potenza delle corporation che su di un altro piano intensificavano la loro opera di corruzione, e largheggiavano in blandizie nei riguardi di ricercatori che, caritatevolmente, definirò come di poco carattere. La dichiarazione dell’OMS veniva totalmente ignorata e quella della IARC sordamente ed efficacemente osteggiata. In tal modo diveniva possibile continuare a discutere all’infinito sulla vexata questio se e fino a qual punto la prevenzione primaria può essere efficace nel ridurre l’incidenza e quindi la mortalità per tumore, e se può esserlo perché non ha dato miglior prova di sé; discussioni inevitabilmente appaiate a quella dell’attribuibilità dei rischi.

Il grande cancerologo russo Leon Shabad quando gli capitava, trentanni fa, di doverne parlare, esordiva parafrasando André Gide: «Poiché pochi leggono e ancor meno ascoltano - diceva - è necessario continuare a scrivere e anche ripetere quanto è stato già scritto e detto». Che senso ha infatti domandarsi perché la prevenzione primaria centrata sulla riduzione o l’abolizione dell’esposizione a cancerogeni chimici non è stata più efficace, se per sostenere questa pretesa inefficacia si dimenticano i casi nei quali, malgrado la schiacciante evidenza che un intervento preventivo avrebbe dovuto essere preso con estrema urgenza e sarebbe stato risolutivo, nulla è stato fatto? E si dimentica che una serie di argomenti più o meno pretestuosi e più o meno ignobili sono riusciti a evitare o a rimandare di anni o decenni la messa al bando di composti altamente pericolosi? Che la cancerogenicità delle amine aromatiche sia stata riconosciuta nel 1895,2 confermata nel 1921,3 e che, a parte qualche iniziativa isolata, si sia dovuto attendere la fine degli anni 1960 per la loro messa al bando in alcuni, non certo tutti, i paesi?4 Che l’amianto, del quale si conosceva la cancerogeni-cità dagli anni trenta5,6 e per il quale è noto che «non esiste un livello di esposizione nell’uomo al di sotto del quale non si manifesti un aumento di rischio di cancro»,7 per decenni ha continuato a essere usato in maniera incontrollata, e lo è tuttora in molti paesi, e che ancora se ne producono oltre due milioni di tonnellate annue (i maggiori produttori sono Russia, Canada e Brasile), che la demolizione di strutture edilizie contenenti amianto viene effettuata per lo più senza adeguate misure protettive, come quella delle navi in disarmo che ancora imperversa da noi8 e che viene sempre più spesso esportata in paesi poveri dove non esiste una legislazione che protegga i lavoratori?9

La litania sullo sfruttamento deliberato e spietato per oltre un secolo di quella parte della popolazione esposta a rischi occupazionali potrebbe continuare con gli esempi del benzene, per il quale si sono mantenuti per decenni livelli di esposizione inaccettabili dopo che l’evidenza della sua cancerogenicità era stata ormai abbondantemente dimostrata, del cloruro di vinile, la cui cancerogenicità per organi diversi dal fegato è stata per anni artatamente contestata, del butadiene, per il quale l’evidenza di cancerogenicità è stata ancora recentemente messa in dubbio con argomenti fittizi, del berillio, del quale per decenni è stata negata la cancerogenicità malgrado l’evidenza disponibile, e così pure di cromo, nickel, cadmio e la lista potrebbe allungarsi.

Mi par già di udire le reazioni irridenti o sprezzanti di quella parte dell’ establishment scientifico che sostiene, ed è finanziato, dalle corporation: queste cose le poteva dire Maccacaro trenta o quarant’anni fa, ma non fanno più presa oggi, siete solo capaci di ripetere fino alla noia le stesse storie, rifiutate di vedere che le amine aromatiche pericolose non esistono più, che l’amianto è una faccenda del passato, che il processo di Mar-ghera ha dimostrato che il cloruro di vinile è pressoché innocuo, che il benzene, si sa, è anche un prodotto naturale, e a piccole dosi non fa male, e che nell’insieme i tumori occupazionali, oltre ad aver sempre rappresentato solo una piccola percentuale del totale dei tumori, sono in netto calo. Partendo da questo abbrivio l’intera questione dei rischi attribuibili ad agenti chimici ambientali viene liquidata in questo modo: 1. la maggioranza dei cancerogeni chimici identificati sono cancerogeni occupazionali, ossia il loro effetto è stato dimostrato seguendo l’approccio epidemiologico in condizioni estreme (prolungata esposizione a dosi alte) e non hanno quindi importanza per la popolazione generale e possono essere ignorati, mentre della cancerogenicità di alcuni medicinali non è il caso di parlare data la indiscussa utilità che ne giustifica pienamente l’uso; 2. per estensione, qualunque agente chimico che sia stato identificato sperimentalmente come cancerogeno usando dosi alte o comunque più alte di quelle alle quali la popolazione generale è esposta può venir ignorato, e in ogni caso i risultati di saggi sperimentali non sono in grado di predire eventi simili nell’uomo; 3. di conseguenza le cause dei tumori vanno ricercate altrove, l’industria chimica non c’entra, è più fruttuoso concentrarsi sulla dieta e l’esercizio fisico e sull’insieme delle abitudini di vita.

L’allentamento dell’attenzione sui rischi chimici è stato anche favorito dalla notevole incoerenza con la quale viene effettuata l’attribuzione dei rischi. Non di rado infatti questa viene fissata sulla base di livelli di evidenza che variano considerevolmente per i diversi fattori di rischio presi in considerazione, ma trattandoli alla stessa stregua, oppure amplificando o riducendo arbitrariamente la plausibiltà biologica di eguali o simili livelli di evidenza a seconda dei tipi di esposizione considerati. Per far accettare l’esistenza di un’associazione causale fra un’esposizione occupazionale o ambientale e cancro nell’uomo si esige un’evidenza particolarmente robusta, mentre l’evidenza che riguarda, per esempio, il contributo di alcuni fattori dietetici all’aumento o alla diminuzione dei rischi di cancro viene spesso ritenuta sufficiente anche se piuttosto debole, con il risultato di oscurare il contributo di altri fattori. Questa attitudine ha cominciato ad affermarsi dopo la pubblicazione del primo importante saggio sull’attribuibilità dei rischi, che è divenuto un classico,10 ha avuto largo seguito e una coorte di imitatori.

L’ostinata negazione di un ruolo eziologico delle piccole quantità di cancerogeni chimici di origine industriale che si incontrano nell’ambiente inquinato mette in evidenza un’altra incoerenza: si dimentica deliberatemente che l’universale consenso sulla cancerogenicità del fumo di tabacco, sia attivo sia passivo, implica pure il riconoscimento del ruolo eziologico determinante di piccole quantità di cancerogeni chimici. Essa fornisce infatti la dimostrazione che cancerogeni diversi, a concentrazioni basse (non molto dissimili da quelle che si incontrano nell’ambiente generale inquinato) hanno verosimilmente un effetto, se considerati individualmente, che sarebbe molto difficile da cogliere con la metodologia epidemiologica oggi a disposizione, mentre possono addizionare i loro effetti e cooperare fra loro fino a produrre un effetto cancerogeno rilevante.

Senza alcun dubbio è giusto e utile promuovere una adeguata educazione sanitaria e rendere l’individuo più conscio e responsabile nella scelta delle proprie abitudini di vita, ma è anche chiaro come la presa di posizione che nega il ruolo dell’inquinamento da sostanze chimiche sia interessata e per qualcuno molto fruttuosa, dato che mentre evita alle corporation chi-mico-farmaceutiche-agroalimentari l’obbligo di investire una parte dei loro profitti in miglioramenti impiantistici o nella sostituzione di qualche catena di produzione, può egualmente garantire un ulteriore aumento di profitti con la produzione di prodotti dei quali viene nascosto/ ignorato/ sottostimato l’impatto negativo sulla salute. Mi limiterò a questo proposito a due esempi, uno riguarda l’atrazina e l’altro l’iniziativa europea nota sotto l’acronimo di REACH (Registration, Evaluation, Authorization and restriction of Chemicals).

Due esempi significativi

L’atrazina è un erbicida del quale si producono annualmente oltre 70.000 tonnellate. Nel 1990 l’atrazina viene assegnata dalla IARC al gruppo 2B (possible human carcinogen),11 sulla base di una evidenza sperimentale di cancerogenicità sufficiente, una evidenza epidemiologica inadeguata e l’evidenza di una azione di disturbo sul sistema endocrino (endocrine disruption). Nel 1998 l’atrazina viene declassata dalla IARC al gruppo 3 (not classifiable as to its carcinogenicity to humans)12 benché l’evidenza sperimentale sia rimasta sufficiente e quella epidemiologica, pur continuando a essere considerata inadeguata, indichi un’associazione fra esposizione ad atrazina e un aumento di rischio per linfomi non-Hodgkin, carcinoma dell’ovaio e carcinoma della prostata. La potente corporation che produce e distribuisce l’atrazina aveva mostrato abbondantemente la sua capacità di reazione a ogni evidenza che potesse danneggiare i suoi interessi, negando l’evidenza di un’azione di disturbo del sistema endocrino.

In realtà quest’ultima evidenza, ripetutamente confermata, è stata ritenuta sufficientemente preoccupante per indurre l’Unione Europea a bandirne l’uso a partire dal 2005. Non così gli Stati Uniti che ne usano circa 50.000 tonnellate all’anno (soprattutto su granturco, sorgo e canna da zucchero) e dove il poderoso sistema di lobbying messo in moto dalla multinazionale è riuscito, per ora, a far usare in maniera perversa un decreto chiamato Data Quality Act.

Tale decreto era stato a suo tempo presentato (si può ben dire in malafede, dato che chi lo presentava è lo stesso individuo che si è adoperato strenuamente per confondere i dati che indicavano i rischi del fumo di tabacco passivo) come strumento per garantire un massimo di «qualità, obiettività, utilità e integrità dell’informazione fornita dalle agenzie federali», fra le quali ovviamente l’EPA (Environmental Protection Agency). In pratica è successo che appena i risultati di uno studio dimostravano l’azione di disturbo endocrino dell’atrazina (azione che già si manifesta, è bene ricordare, a concentrazioni di pochi parti per miliardo) spuntavano come funghi diversi studi i cui risultati li metteva- no in dubbio.

Il fatto che tali studi fossero inadeguati o palesemente concepiti per non fornire risultati significativi non ha impedito che facessero aumentare il rumore di fondo con un’azione di confondimento che ha avuto verosimilmente un peso notevole anche nel declassamento deciso dall’IARC nel 1998. Lo stesso tipo di azione è stata condotta nei riguardi dei dati sui carcinomi della prostata. Un aggiornamento dello studio sui tumori della prostata che rinforzava l’ipotesi di un’associazione con l’esposizione ad atrazina, sia pure in modo molto cauto, e non c’è da meravigliarsene dato che gli autori hanno ottime relazioni con l’industria produttrice,13 ha subito indotto una conveniente ed efficace opera di disturbo. Tempestivamente è così comparso un altro studio che molto genericamente dimostra che produrre atrazina non è pericoloso e fa addirittura bene alla salute, malgrado qualche linfoma in più,14 e un altro che, omettendo di includere nello studio i casi osservati negli ultimi anni, confonde le pur guardinghe osservazioni dello studio di MacLennan et al, 2002, e afferma recisamente che non vi è alcuna evidenza fra esposizione ad atrazina e cancro della prostata.15

Il caso dell’atrazina è uno dei tanti esempi lampanti di come una programmata produzione di incertezze possa interferire pesantemente con la prevenzione primaria. Gli avvertimenti su quanto complessi, penetranti e, purtroppo, efficaci siano le tattiche messe in opera per creare dubbi attorno a risultati non graditi alle corporation, sono venuti anche da fonti molto au-torevoli,16 ma senza grande effetto.

Il secondo esempio, quello di REACH, è già stato trattato estesamente nell’articolo di Maria Luisa Clementi,17 nel quale venivano sottolineati sia gli aspetti positivi del nuovo sistema di registrazione, valutazione e autorizzazione di tutte le sostenze chimiche in uso (fa spicco quello che pone l’onere delle prove sull’industria, mentre finora ricadeva sull’autorità pubblica), sia i suoi limiti, fra i quali quello di lasciare fuori dalla normative i composti che vengono commercializzati in una quantità che non superi la tonnellata. Degli oltre tre milioni di composti chimici conosciuti, se ne usano correntemente fra i cinquantamila e gli ottantamila. L’incertezza di queste due ultime cifre riflette la difficoltà di ottenere, per un ragguardevole numero di composti, informazioni adeguate sulle quantità realmente prodotte a livello industriale e sugli usi ai quali un numero non indifferente di composti sono effettivamente destinati.

Attualmente abbiamo a disposizione dati di tossicità a breve e lungo termine (questi ultimi non sempre adeguati) per circa 2.700 composti, il che significa che per la stragrande maggioranza dei composti chimici dei quali ci serviamo e/o ai quali siamo esposti non abbiamo dati che indichino se costituiscano o meno un pericolo per la salute. Anche se si può sperare che la percentuale di sostanze ad alta tossicità acuta e/o cronica fra quelle tuttora non saggiate non sia troppo elevata (ma anche solo l’un per mille vorrebbe pur sempre dire alcune decine di sostanze tossiche in più di quelle che già conosciamo), significa pure che si è passati da una produzione globale di un milione di tonnellate annue di prodotti chimici nel 1930 a quella attuale di 400 milioni di tonnellate nella pressoché totale ignoranza e omissione di elementari regole di precauzione.

Ma ciò non è certamente avvenuto per semplice distrazione. Come è stato sottolineato da Margaret Wallstrom, commissario europeo per l’ambiente, alle autorità pubbliche spettava in passato di valutare i possibili rischi di sostanze in uso sulla base di informazioni fornite dall’industria, ma tali informazioni potevano essere richieste solo se era possible provare che vi era realmente un aumento di rischio, un circolo vizioso che non solo non favoriva una corretta valutazione dei rischi, ma rappresentava un quasi insormontabile ostacolo alla messa in atto di una efficiente prevenzione primaria.

Contro l’applicazione di REACH, che potrebbe compensare almeno in parte la grande lacuna preventiva che si è spalancata nei riguardi dei composti chimici entrati nel nostro ambiente, si è schierata la lobby degli industriali europei, con quelli tedeschi in testa. A quella europea si è presto aggiunta la potente lobby americana, che è riuscita anche a indurre lo stesso governo statunitense a pronunciarsi contro l’adozione di REACH, che considera alla stessa stregua composti prodotti all’interno della Comunità europea e quelli importati in Europa, includendo quindi quelli prodotti negli Usa. Il processo di diluizione e annacquamento di REACH è in atto e non è dato ancora sapere fino a qual punto potrà giungere. Considerando che alcune corporation da sé sole hanno un bilancio che è pari o superiore a quello di una nazione di media grandezza, non si può essere troppo ottimisti.

Rileggendo a ventotto anni dalla sua morte gli scritti di Maccacaro si ha la netta impressione che le denunce fatte qui sopra non facciano che riflettere situazioni che Maccacaro conosceva più che bene e che aveva gia denunciato chiaramente a suo tempo. Le sue critiche, ipotesi e proposte rimangono pienamente valide. Rimane valido il suo incitamento ad abbattere i muri che ci imprigionano per poter realizzare la fuga dal «carcere in cui ci ha imprigionato il capitale» e operare perché «sia possible la nascita di una nuova scienza, la scienza di un nuovo potere»,18 dove non sia più il capitalismo, come diceva Hal-dane,19 a prendersi cura del ricercatore scientifico perché produca le uova d’oro per la sua tavola.

Come orientarci in futuro?

Ma in quale direzione dobbiano orientarci per provare ad arginare la strapotenza finanziaria delle corporation e la loro travolgente capacità corruttrice? Forse ci può aiutare la considerazione che ricerca scientifica e forze armate hanno caratteristiche che in qualche modo le accomuna. Sono definite ambedue come necessità che si giustificano principalmente con degli scopi difensivi e per ambedue la tendenza odierna è di metterle sempre più strettamente al servizio di interessi particolari. In tal modo gli eserciti vengono trasformati in eserciti professionali e la ricerca viene trasformata in una società chiusa a obiettivi limitati.

Vediamo questa trasformazione prender forma sotto i nostri occhi. La preselezione di ricercatori e obiettivi della ricerca per mezzo di canali di finanziamento fuori dei quali esistono poche o nulle speranze di sovvenzione, tende a fare dei ricercatori un esercito professionale efficiente e acritico. Ma alla stessa stregua come le difficoltà di condizionare e irrigimentare tutti i coscritti al medesimo grado rende possible che affiori una certa proporzione di contestatori, facendo in tal modo dell’esercito a coscrizione obbligatoria un minor male, il preservare e difendere un certo grado di autonomia della ricerca, sia pure dispersiva e sia pure disorganizzata come quella finanziata da enti pubblici e per di più povera di mezzi come quella universitaria, e quella ancor più povera di alcuni coraggiosi singoli ricercatori e piccoli gruppi autonomi, garantisce un minimo di iniziative divergenti o controcorrente che si oppongono alla dominazione assoluta di un programma multinazionale.

E’ fra le poche speranze che oggi si possono avere per una ricerca biomedica che voglia essere al servizio della gente e non di potenti gruppi finanziari. La deliberata spietatezza con la quale la popolazione operaia è stata usata per aumentare la produzione di beni di consumo e dei profitti che ne derivano, si è ora estesa su tutta la popolazione del pianeta, coinvolgendone anche la componente più fragile, che sono i bambini, sia con l’esposizione diretta alla pletora di cancerogeni, mutageni e sostanze tossiche di varia natura presenti nell’acqua, aria, suolo e cibo, sia con le conseguenze della sistematica e accanita distruzione del nostro habitat.

Lorenzo Tomatis

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