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oggi è il: 25|04|2024
Recensione del libro di Saverio Luzzi: SALUTE E SANITA NELL’ITALIA REPUBBLICANA

Sanità e salute nell’ultimo cinquantennio
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Il libro di Saverio Luzzi "Salute e Sanità nell’Italia repubblicana", edito da Donzelli Editore (2004), si muove attraverso lo spazio socio politico che l’ltalia repubblicana cerca affannosamente di edificare sulle rovine del ventennio fascista, utilizzando piani di analisi e di lettura sapientemente intrecciati. Il risultato è quello di riuscire a ricostruire con grande efficacia la complessità di una società in transizione uscita distrutta e lacerata dalla guerra. Questo consente all’autore una rappresentazione a tutto tondo dei mutamenti intercorsi dal ventennio ai giorni nostri, senza tuttavia cadere nel limite di una semplice e mera ricostruzione fotografica della realtà data. Dalla sovrapposizione di questi piani infatti Luzzi fa emergere, con profondità e serenità di pensiero, un vero percorso interpretativo di questo periodo storico, compiendo una sorta di "ermeneutica della incompiutezza"della nostra modernità. Questo rigoroso procedere tra costruzione e decostruzione contestuale infatti prende progressivamente forma nella elaborazione di un giudizio fortemente critico sullo sviluppo (e non progresso come dirà Pasolini) del nostro paese, a partire proprio dalla distanza rilevata tra le vere necessità poste dagli anni dell’ "età dell’oro" successivi alla terrificante guerra, ivi comprese le speranze e le aspirazioni legittime delle generazioni uscite dalla Resistenza, e quello che il sistema politico e la macchina statale sono stati invece capaci di realizzare concretamente. Cosi dice Luzzi "E’ sconcertante vedere come non vi fosse alcun contatto tra i vari settori dell’amministrazione statale italiana.... ( e come questo ) favorisse l’egemonia sulla stessa delle culture amministrative più retrive ed antiriformiste e rappresentasse una causa basilare del ritardo italiano rispetto ad altri paesi europei" (p. 186). Un giudizio politico dunque sulla inadeguatezza del sistema politico-amministrativo dell’Italia repubblicana che, motivato da una minuziosa ricostruzione della documentazione, non risulta meno convincente di quello che A. Gramsci ebbe a esprimere su un altro periodo storico (la fine dell’800 e l’inizio del ’900) in riferimento alla arretratezza della più importante classe sociale di allora, quella degli agrari; i grandi possessori terrieri infatti, a differenza di quanto accaduto negli USA con gli imprenditori mossi, per ricordare Weber, da uno spirito ben diverso, quello dell’ "etica protestante", lungi dal rappresentare un momento di sviluppo, svolsero un ruolo di freno per l’economia del paese in quanto percettori e strenui difensori di una rendita fondiaria assolutamente improduttiva e antimoderna. Per loro dunque A. Gramsci, negli studi dedicati all’Americanismo e al Fordismo e allo sviluppo della società industriale, coniò con grande efficacia il termine di "pensionati della storia economica"; concetto questo che però può essere sicuramente esteso ad altri periodi della nostra storia in cui continueranno a prevalere posizioni di rendita parassitaria e che il libro, ci sembra, metta in luce come una costante del nostro sviluppo. Luzzi, dunque, utilizza piani di lettura che attingono a materiali e fonti diverse, ma che sono tutte importanti ai fini della ricostruzione del contesto analitico: i fatti storici con la lettera maiuscola (i grandi avvenimenti del secolo breve: la guerra, la caduta del fascismo, la tripartizione dell’Italia, la RSI e la nascita della Costituzione); gli studi popolazionistici e l’analisi dei dati biostatistici (l’epidemiologia delle malattie da quelle di antico radicamento a quelle della terza fase, passando attraverso quelle tipiche della modernità e dell’industrializzazione del paese); gli avvenimenti di cronaca e di costume (tra i tanti: i tarantolati della Basilicata con gli studi di De Martino e con i riflessi che questi avranno anche sul pensiero della giovane psichiatria italiana; l’ltalietta delle terapie miracolistiche contro il cancro dal siero Bonifacio alla terapia di Di Bella, le rappresentazioni televisive e cinematografiche della società e dei suoi problemi); gli interessi lobbistici del complesso farmaco industriale e della corporazione dei medici (impegnati ad ostacolare con ogni mezzo ogni riforma tanto in campo farmaceutico che in quello sanitario da quelle di Petragnani a quelle di Mariotti per arrivare ai tempi recenti); beghe di partito e di schieramento (con le inevitabili e spesso poco comprensibili trasformazioni e trasformismi tra cui è difficile non riconoscervi parte della vicenda politica di Fanfani e di Moro) ed infine gli interessi incancreniti dell’apparato ministeriale, la gabbia d’acciaio della burocrazia (peraltro strettamente collegati ad entrambi i precedenti per i frequenti trascinamenti di carriera di molti di questi burocrati) emblematicamente evidenziati dal doloroso parto del Ministero della sanità nel 1958. Ma in questa visione caleidoscopica trovano grande risalto anche altre istanze: faglie di scivolamento dei piani della società in grado di esercitare grandi sommovimenti troppo spesso lasciati in penombra dal pensiero storico più tradizionale; parlo dei grandi movimenti di massa degli operai, degli studenti, delle donne e degli intellettuali degli anni ’60 e ’70: quello per il diritto alla salute negli ambienti di lavoro, magistralmente ricostruito dai primi anni’50 (la "Rivista dell’attivista" sulla salute in fabbrica come evento sentinella di una chiara presa di coscienza) alla legge 626 passando attraverso la tragedia di Seveso, con il giusto risalto dato a quello straordinario pensatore che fu Giulio Maccacaro (fondatore di "Medicina Democratica - Movimento di Lotta per la Salute") e all’emergere di un nuovo sapere che traeva le sue origini dalla realtà della fabbrica, dal gruppo omogeneo degli esposti e dalla soggettività della classe; quello sorto per la lotta al regime custudialistico e all’universo osceno del manicomio (simile per altri versi al sistema delle carceri) dove spicca tra i tanti intellettuali la figura altrettanto straordinaria di Franco Basaglia uno psichiatra non psichiatra; senza ovviamente tralasciare la condizione attuale ancora una volta rappresentabile con il doppio termine di incompiutezza applicativa e spinta controriformista, quest’ ultima chiaramente rappresentata dal disegno di legge Burani Procaccini che di fatto istituzionalizza una nuova manicomialità (p. 334 e seg.); quello del femminismo che porterà alla più grande trasformazione culturale del dopoguerra (con la nascita di un nuovo diritto della famiglia a partire dall’approvazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza e la istituzione dei Consultori); ed infine quello del ’68 (straordinari quegli anni) senza il quale il nostro paese, come il resto del mondo, sarebbe rimasto una società drammaticamente arretrata. Un’arretratezza che solo un "diverso" apolide e senza partito, Pier Paolo Pasolini, pensatore e scrittore paragonabile per profondità e originalità di pensiero solo ad A. Gramsci, seppe rappresentare e contrastare nei suoi scritti come nella sua vita terrena, rompendo con ogni conformismo di destra e di sinistra che fosse. In particolare nelle ultime pagine del libro Luzzi ricostruisce con intensa partecipazione il percorso ideale di questo intellettuale scomodo a partire proprio dall’analisi che Pasolini fece della differenza tra sviluppo e progresso (mancante) della società italiana e dalla sua denuncia su come la nuova società industrializzata ed il consumismo avessero sì realizzato la prima vera unificazione del paese, omologando però il popolo italiano fino al punto di oscurarne la coscienza; e amaramente Luzzi ne condivide il giudizio pessimistico affermando che "In Italia ci fu sviluppo che è solo la condizione base del progresso. Quest’ultimo si ha quando i provvedimenti legislativi assecondano le istanze, le evoluzioni e i bisogni della società, assieme al loro mutare; cosa che non sempre è avvenuta nel nostro paese" (p. 342). Concetti questi che richiamano il pensiero di un altro grande economista A. Sen sulla distinzione esistente tra Sviluppo mediato dalla crescita (meramente economicistico e profondamente diseguale in termini di reditribuzione dei vantaggi) e sviluppo mediato dal sostegno (in cui a prevalere sono le politiche di inclusione e di promozione sociale per gli strati meno avvantaggiati della società).

Il libro dunque rappresenta in modo magistrale il moto convulso degli avvenimenti, quel continuo rincorrersi di cambiamenti nella base materiale della società sempre in ritardo rispetto alle esigenze di una società post-contadina e travolta da fenomeni di migrazione interna ed inurbamento selvaggio per l’ industrializzazione degli anni ’50 e del boom economico. Pagine di grande commozione sono dedicate alle centinaia di migliaia di meridionali che abbandonarono le terre dei loro padri per trasferirsi nelle inospitali città del nord sotto la spinta di un boom economico diseguale (fu vero boom si chiede Luzzi?); flussi di uomini e donne in carne ed ossa che, per fare grande il paese, recisero per sempre i legami con la società contadina e con quelle reti di solidarietà che, seppure misere ed arcaiche, avevano tuttavia rappresentato per secoli un argine efficace a protezione delle avversità.

Nel libro la storia della salute e della sanità si snoda su un piano parallelo a quello dello sviluppo del capitalismo; i fatti morbosi vengono costantemente contestualizzati superando ogni tentativo riduzionista di considerarli eventi isolati e puramente biologici. E questo è ampiamente dimostrato dall’emergere e dall’affermarsi a partire dagli anni ’50 delle patologie della modernità, ovvero delle società industrializzate, in sostituzione di quelle tipiche dei contesti contadini (tumori, malattie cardiovascolari, infortuni sul lavoro e malattie professionali strettamente connessi ai processi di industrializzazione e dalla non attuazione delle norme di prevenzione da parte delle aziende). Luzzi in realtà spinge la sua analisi ancora oltre, riconoscendo da un lato un nuovo idealtipo di malattie della nostra contemporaneità: quelle della terza fase, strettamente connesse all’invecchiamento della popolazione e all’allungamento della vita: morbo di Alzheimer, Parkinson, diabete e incidenti stradali; dall’altro richiamando il concetto di patocenosi di Mirko Gremek, con cui si definisce una nuova visione di tipo "sistematico" sull’evoluzione delle patologie umane; con tale concetto infatti si supera ogni definizione parcellizzata dei fatti patologici e si pone invece l’attenzione su come "la frequenza di ogni singola malattia dipenda in realtà da una serie di fattori: fattori di tipo ecologico ed endogeno (basta pensare alla diffusione delle malattie di vecchio radicamento come la malaria, la TBC, e il tracoma dovute alle scarsissime condizioni igieniche e allo stato di denutrizione delle popolazioni, di cui Luzzi ricostruisce in modo preciso l’andamento epidemiologico) ma anche dalla prevalenza e dalla capacità di potere infettante delle altre patologie presenti nella stessa popolazione" (p. 69); sicché anche la peste del 2000, l’AIDS, lungi dall’essere considerata una entità morbosa misteriosamente comparsa dal nulla, deve essere invece intesa come una patologia da sempre esistita, ma resa poco visibile dalla prevalenza delle altre malattie a maggiore morbilità. Nella storia dell’uomo per Gremek, ci ricorda Luzzi, si sono verificate quattro grandi mutazioni della patocenosi legate tutte ad eventi e o cambiamenti radicali nella vita degli uomini che hanno comportato rimescolamenti e "contaminazioni" favorenti la diffusione e la generalizzazione di patologie precedentemente solo locali. Questi elementi di valutazione di tipo teorico non sono in Luzzi aspetti di contorno, ma al contrario essi rappresentano la base necessaria per esprimere un giudizio ponderato sulla reale efficacia delle misure legislative assunte in ambito sanitario dai vari e numerosi governi succedutisi alla guida del paese; un lungo percorso iniziato con il Testo unico delle Leggi Sanitarie del 27 luglio 1934, n° 1265 (con cui lo Stato si occupò soprattutto di isolare i malati dalla collettività ritenuta "sana") (p.104) ed arrivato con colpevole ritardo (basta pensare alla istituzione del National Health Service inglese risalente al 1948), alla istituzione solo nel 1978, con la promulgazione della legge n.833, del tanto atteso Servizio Sanitario Nazionale. Luzzi chiarisce con grande efficacia come il precedente sistema mutualistico (nato sulla base di una scelta precisa del regime fascista che nel 1929 si rifiutò di varare un piano assicurativo globale contro le malattie, optando invece per la costituzione di casse mutue di tipo professionale o di categoria) non avesse come limite principale quello della scarsa copertura della popolazione assistita: "di fatto il welfare state di stampo democristiano era comunque esteso (nel 1972 gli enti mutualistici assistevano il 91,54% della popolazione) seppure in un quadro di rapporti clientelari e frammentarietà di ogni genere". I problemi infatti erano altri: da un lato la scarsa qualità dell’assistenza garantita; dall’altro la logica tipicamente assicurativa degli enti mutualistici che non attuavano alcuna politica di controllo e prevenzione, limitandosi ad intervenire solo successivamente a malattia già affermata. Fatto questo assolutamente inadeguato alla nuova patocenosi delle malattie della modernità (ad andamento cronico ed esordio spesso silente) per le quali era assolutamente necessario sviluppare strategie di prevenzione volte al mantenimento della salute e al contrasto dell’emergere delle patologie. Né va ovviamente trascurato il deficit mostruoso che questi carrozzoni avevano con il tempo accumulato e che richiese lo stanziamento, tramite la legge n° 386 del 17 agosto del 1974, di 2700 miliardi per fare fronte alle esposizioni debitorie nei confronti degli enti ospedalieri.

Con la stessa legge 386, come Luzzi ci ricorda, vennero assunti altri provvedimenti importanti (divieto per gli ospedali di istituire nuovi reparti o assumere nuovo personale, passaggio alle regioni di tutti i compiti concernenti l’assistenza ospedaliera ed erogazione dei relativi servizi a tutti i cittadini in forma diretta e senza limiti di durata, istituzione del Fondo nazionale per l’assistenza ospedaliera) senza i quali non sarebbe stato assolutamente possibile nel 1978 procedere finalmente all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). La legge 833/78, con cui si realizzò in Italia quello che gli Inglesi avevano ottenuto fin dal 1948, viene giustamente definita da Luzzi una delle riforme in assoluto "più importanti della storia dell’Italia repubblicana" (p.315), senza tuttavia dimenticare che "le contraddizioni, le debolezze e la provvisorietà del clima politico che consentì il varo della riforma sanitaria finirono per rappresentare purtroppo, anche la causa di molti limiti" (a tale proposito è doveroso ricordare come a seguito del tragico assassinio di Aldo Moro, il PCI dichiarò, appena dopo la caduta del governo Andreotti, che sarebbe passato all’opposizione, rompendo definitivamente la stagione di collaborazione con la DC). Luzzi ci ricorda come Cosmacini abbia parlato per la 833/78 di una "riforma negata"; del resto come sarebbe potuto essere diversamente se i Ministri chiamati a realizzarla nei successivi 15 anni (tra i quali Altissimo, De Lorenzo e Costa) furono prevalentemente scelti tra le fila del PLI, un partito che aveva votato apertamente contro la riforma? La legge 833/78 dunque fu progressivamente depotenziata attraverso un uso sapiente di strategie diverse: la mancata attuazione dei suoi principali istituti, in primis, il Piano Sanitario nazionale, varato con 15 anni di ritardo; l’uso distorto e lottizzato dei Comitati di Gestione, diventati terreno di conquista dei partiti politici (il fallimento della politica italiana per lo storico P. Ginsborg); la mancanza di idonei strumenti di controllo sui flussi di spesa (con il consolidarsi di una nuova stagione debitoria); il mutato quadro internazionale con la fine del regime sovietico e il tramonto di quelle ideologie che avevano fortemente spinto per la riforma; i sacrifici imposti dal Patto di stabilità ai fini della nostra partecipazione alla moneta unica; ed infine il trionfo del pensiero unico neoliberista, (un mix di fondamentalismo del mercato, deregulation e Stato minimo) che, affermatosi a seguito delle vittorie elettorali della Thatcher e di Reagan, penetrò anche in settori della sinistra e del sindacato (vedi gli interventi di Cazzola e di Cavicchi riportati da Luzzi). Poco meno di 15 anni dopo, la crisi della lira del 1992 e la successiva manovra correttiva sui conti pubblici da 93.000 miliardi di G. Amato, porto alla luce una condizione drammatica della nostra economia ed assunse al contempo il significato di un altrettanto drammatico cambio paradigmatico; accanto al tracollo economico, causato dalle scellerate politiche del "CAF", giunse anche alla fine una stagione che si era alimentata nel grande sogno di realizzare anche nel nostro paese un servizio sanitario basato sulla condivisione e sulla partecipazione diretta dei cittadini e dei corpi sociali. Spetterà al ministro Francesco De Lorenzo, un politico in cui l’arroganza era pari solo al livello di corruzione, dare un colpo mortale alla riforma 833/78, facendo approvare il decreto legislativo 502; tale decreto, emanato in applicazione della legge delega 421/1992 era basato sui principi totalmente diversi e ampiamente importati dall’estero, da realtà assolutamente distanti dalle nostre, in primis dagli USA: regime di concorrenza degli erogatori, equiparazione tra fornitori pubblici e privati, pagamento delle prestazioni rese tramite il sistema dei DRG; aziendalizzazione delle USL ora diventate ASL; regionalizzazione completa delle competenze in materia sanitaria e abolizione degli strumenti di partecipazione allargata. Gli effetti di tale decreto, appena mitigati dal D.Lgs. 517 del 1994 (con cui tra l’altro si impedì provvidenzialmente l’attivazione della mutualità sostitutiva e dell’assistenza indiretta) vengono giudicati da Luzzi per quello che sono stati veramente: un modo per moltiplicare le spese in quelle regioni, come la Lombardia, che ne adottarono pienamente il modello organizzativo-gestionale è un mezzo per incrementare ulteriormente le differenze già esistenti tra le modalità assistenziali delle regioni italiane, a scapito delle uniformità e universalità di trattamento dei cittadini (p. 355).

Gli avvenimenti successivi appartengono alla cronaca dei nostri giorni: la riforma ter del SSN, il D.Lgs 229 emanato nel 1999 (detta riforma Bindi) riuscì a correggere parzialmente le storture neoliberiste del decreto De Lorenzo. Il decreto legislativo 229 infatti può essere giudicato una buona legge in quanto fa propri alcuni principi di grande rilievo che rimandano di nuovo alla impostazione originale della legge 833/78; esso tuttavia non è alieno da un eccesso di dettagli ed è altresì poco compatibile con il nuovo quadro di ripartizione di competenze tra Stato e regioni sopravvenuto in seguito all’approvazione della riforma Costituzionale del 2001 di modifica del Capo V della Costituzione. Luzzi conclude così il suo viaggio attraverso la salute e la sanità di oltre 50 anni di storia patria, richiamandoci un concetto che, a nostro giudizio, segna la differenza principale rispetto alle concezioni neoliberiste della società: "Ciò che nei paesi democratici colma il gap tra democrazia formale e democrazia sostanziale è proprio il welfare state in quanto l’insieme delle prestazioni assistenziali da esso offerto, tende a livellare le differenze scaturenti della diversa ricchezza dei membri della collettività". Questo ovviamente non significa non considerare il problema delle compatibilità economiche che vengono messe a dura prova dall’invecchiamento della popolazione, dalla implementazione tecnologica, foriera di un aumento dei costi e dalla maggiore partecipazione di cittadini che talvolta si traduce in iperconsumo di prestazioni inappropriate. La risposta a questi problemi non è tuttavia rinvenibile nella riduzione del livello di tutela della popolazione. Per Luzzi infatti "uno Stato assistenziale efficace, è percepito come tale non deve tagliare la spesa ma riqualificarla, mirando quanto più possibile a includere e ricomprendere categorie di cittadini". Luzzi dunque ci offre con il suo libro uno straordinario mezzo per comprendere lo sviluppo della sanità del nostro paese; nella sua opera la compresenza di piani di lettura diversificati rappresenta un metodo di approccio alla realtà di rara efficacia in quanto capace di rappresentare tutti gli elementi che vanno a costituire lo spazio sociale del periodo storico considerato. Una metodologia per affrontare e descrivere i grandi cambiamenti della società che presenta, se mi si permette un paragone azzardato con mondi lontani, grandi assonanze con la tecnica compositiva di Gustav Malher, nella interpretazione che di questa fece nei suoi scritti sulla sociologia della musica Teodoro Adorno: la valorizzazione di tutti gli elementi anche quelli apparentemente dozzinali, come le marcette o le filastrocche dei bambini, vengono intessute nelle sinfonie di Malher in una struttura corale insieme a parti di straordinario e commovente lirismo per rappresentare la complessità e la irriducibilità della realtà data nei suoi molteplici aspetti. Non so se l’intenzione di Luzzi fosse anche questa, ma, al di là dei grandi contenuti documentali e del rigore analitico dello studioso, con i continui richiami dell’autore alla storia del cinema (dagli spot elettoralistici e propagandistici degli alleati ai film di A. Sordi sul Dott. Tersilli), della televisione (con le sue fiction su medici ed ospedali fino a medici in prima linea) e della musica popolare (le canzoni dei grandi cantautori italiani come specchio della società reale), è questa la sensazione che questo intenso libro mi ha piacevolmente lasciato e che è un motivo ulteriore per una sua attenta lettura.

Roberto Polillo**Responsabile delle Politiche della Salute della CGIL nazionale


Articolo pubblicato sul volume 154- 156 della rivista Medicina Democratica
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