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Commento critico alla sentenza della Corte di Cassazione n°21764 del 17/11/2004
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Siamo arrivati quasi alla conclusione della vicenda che ha visto opporsi alcuni degenti e famigliari ricoverati nell’ex Ospedale Psichiatrico S. Martino di Como all’Azienda ospedaliera Sant’Anna sempre di Como.

Una vicenda che è iniziata nel 1994, che ha visto protagonista l’associazione ASVAP 5 di Suello e che ha fatto crescere la coscienza e il movimento di lotta per la salute, particolarmente quello per il diritto alle cure sanitarie e alla riabilitazione di tutti i malati, compresi quelli cronici e i sofferenti psichiatrici, all’interno del Servizio Sanitario Nazionale A Como vi era un grande manicomio, uno di quelli istituiti con il regio decreto 615 del 1909, che, come molti altri era rimasto aperto dopo la grande riforma della psichiatria avvenuta nel 1978 con le legge 180 e con la legge di riforma sanitaria n. 833.

Il manicomio era fondato sull’idea di separazione dal contesto sociale dei devianti, di coloro che manifestavano comportamenti considerati strani, stravaganti, comunque diversi da quelli comuni. In manicomio venivano prevalentemente ricoverati o meglio reclusi donne e uomini colpiti da malattia mentale. I “matti” o devianti e anche persone sane, ma che non si sapeva dove collocare perché rimasti orfani o troppo poveri per potere vivere da soli, collocati in manicomio non erano considerati malati, ma persone che dovevano essere sostanzialmente controllate o custodite o sorvegliati. Non era l’indeterminato - allora - sistema sanitario che si doveva occupare di loro, ma la pubblica sicurezza. Costoro potevano infatti essere dannosi a se e agli altri. La storia passata, ma anche quella del recente passato, ci ha mostrato come le persone nei manicomi erano soggette ad ogni sorta di violenza fisica e psicologica. Innumerevoli sono le testimonianze delle terrificanti angherie che i malati mentali hanno subito. I manicomi erano sostanzialmente dei reclusori, pure erano dei lager. Tutto quanto di più innominabile li è avvenuto. Anche quando alla fine degli anni 60 dopo innumerevoli denuncie, in concomitanza al movimento che si è creato contro i manicomi e per la loro chiusura, la violenza di fondo in essi presente non si è modificata. Se, forse e non sempre, sul piano fisico le persone erano trattate meglio, restavano comunque dei devianti ed erano sempre separati dal contesto sociale. Era il ministero dell’Interno e le Province che giuridicamente avevano in carico i manicomi. La svolta radicale, abbiamo visto, avvenne nel 1978, ma non fu repentina, ci vollero altri 20 anni per chiudere definitivamente i manicomi e la spinta venne forse più da motivi di ordine economico che di giustizia.

L’ospedale psichiatrico di S. Martino di Como era un manicomio uguale agli altri. Confinati in una cittadella chiusa all’interno della città vivevano alcune centinaia di degenti: quando con due consiglieri regionali ci siamo recati a visitarlo nel 1994 ve ne erano circa 400. Questi erano raggruppati in tre fasce: una denominata psichiatrica, l’altra riabilitativa e la terza assistenziale. La divisione era del tutto arbitraria. Le persone si trascinavano per i corridoi od erano negli stanzoni oppure giravano per il parco. Non vi erano in effetti grandi attività riabilitative o di inserimento sociale, ne vi era partecipazione da pa rte dei famigliari; gli interventi delle associazioni erano di tipo consolatorio. Il discorso ha iniziato a cambiare dopo l’intervento dei due consiglieri regionali (Elena Gandolfi, DS; Pippo Torri, PRC). A partire da un famigliare di una degente, Andrea Lanfranchi, nacque un’associazione (ASVAP 5) che si configurò dall’inizio come associazione per la difesa dei diritti e per la prima volta iniziò a raccogliere e a fare assemblee con i famigliari. Secondo i dirigenti dell’ex O.P i famigliari dei degenti erano dei menefreghisti, interessati solo alle pensioni dei loro congiunti, che non si facevano mai vedere nel timore che questi potessero ritornare a casa. Eppure alle assemblee da subito partecipavano dalle duecento alle trecento persone ed il livello di denuncia delle condizioni in cui si trovano le persone ricoverate era altissimo, insieme alle difficoltà di relazione con i dirigenti medici ed amministrativi. Si sviluppò una vertenza complessiva nata intorno al problema delle rette, alla pretesa cioè da parte dell’amministrazione di recuperare sostanzialmente la pensione dei degenti per le casse della USL. Si scoprì nel frattempo che questi denari erano stati accantonati d’ufficio per un ammontare di circa 40 miliardi di vecchie lire. Lo scontro si pose subito sulla considerazione dei diritti. Secondo la dirigenza di allora della USSL 5 di Como i degenti dell’ex O.P. erano da considerarsi persone da assistere sulle quali vi erano pure degli interventi di tipo sanitario. Il fatto che vi fosse un direttore sanitario, dei medici psichiatri, degli infermieri professionali, e che tutto il personale fosse inquadrato nel contratto della sanità era del tutto accidentale. Nel 1996 la legge finanziaria impose la chiusura definitiva degli ex O.P. L’ASVAP allargò pertanto la vertenza alle modalità di dismissione e di reinserimento. Dopo tante assemblee, incontri, lettere e discussioni si arrivò definire una bozza di accordo sul quale convenne il nuovo direttore generale della USSL (dott. Bai) ormai divenuta ASL. In sostanza l’accordo chiudeva la vertenza legale che era stata avviata da tempo stabilendo che i denari dei degenti dell’ex O.P. avrebbero dovuto essere impiegati per la costruzione di comunità terapeutiche (8-10 persone) nei territori di provenienze dei degenti stessi, per il rientro in famiglia (adattare la case alle necessità delle persone dimesse) e per la costruzione di un centro di documentazione che recuperasse la memoria storica del manicomio e per fare un lavoro di prevenzione e di cultura nei confronti della popolazione del bacino di utenza dell’ex manicomio (province di Como e di Lecco). Ma nel 1997 la regione, guidata da Formigoni, approvò la legge 31 di riordino del servizio sanitario regionale che, in un contesto di grande apertura al privato ispirandosi al principio di sussidiarietà, afferì la psichiatria alle aziende ospedaliere. Il direttore della ASL di Como si dichiarò pertanto incompetente e la partita passò al direttore generale della azienda ospedaliera Sant’Anna di Como, con il quale si iniziò di nuovo (per la terza volta) tutto il discorso non arrivando però a sottoscrive alcun accordo. A quel punto, constata la distanza con la linea dell’azienda ospedaliera (e quella della regione Lombardia) non vi fu altra possibilità che andare in Tribunale. E’ vero però che l’azione dell’ASVAP e delle centinaia di famigliari che erano associati (e di quasi tutti gli altri che non lo erano) mosse le acque, per cui il processo di dismissione dall’ex O.P. venne fatto in un certo modo, certamente non perfetto, ma soddisfacente. In quel periodo venne pure attivito “Il Comitato per la Salute Mentale” formato da famigliari ed associazioni della psichiatria, con lo scopo di verificare il funzionamento delle strutture e dei servizi psichiatrici, particolarmente per controllare il passaggio dal ex O.P. alle comunità. Non si andò però oltre, non venne realizzato quanto di fondamentale era stato richiesto, cioè un intervento generale nei confronti della società sulla salute mentale, contro lo stigma e per la accoglienza dei malati come problema di tutti e come fatto sociale. La regione Lombardia impose linee sempre più burocratiche e privatistiche, cercando di trasferire il dovere di cura e di riabilitazione delle persone con malattia mentale sulle spalle delle famiglie, del non profit e del privato. La malattia mentale è stata considerata essenzialmente un problema di assistenza sociale; la sanità vi deve concorrere in maniera secondaria. In questo modo il diritto alle cure, alla presa in carico è solo enunciato, ma poi viene relegato ad altri. L’Associazione ASVAP che ha aperto un ufficio dei diritti che va oltre lo specifico dei pazienti dell’ex O.P. se ne sta accorgendo ogni giorno che passa. I casi di persone che ad essa si rivolgono in cui i diritti vengono negati sono sempre più frequenti. Ritorniamo al Tribunale di Como che nello specifico, il 18 settembre 1999 ha emesso una sentenza importante contraddicendo la linea e l’azione dell’azienda ospedaliera. La sentenza ha raccontato la storia legislativa della sanità e della salute mentale i passaggi che ci sono stati dalla legge del 1904 alle Mutue e poi alla 180 e alla riforma sanitaria. Ad esempio dice la sentenza come “Il carattere sanitario ha sostituito l’aspetto poliziesco della legge 36 del 1904 (che ha preceduto il regio decreto del 1909). Scompaiono perciò gli interventi di polizia e del Pubblico Ministero; il ricovero è soprattutto volontario e quello obbligatorio è limitato a pochi casi ben definiti. Si pone l’accento sull’aspetto preventivo, coerentemente con gli articoli 1 e 2 della riforma sanitaria. Si considera la salute in modo unitario, come fisica e psichica allo stesso tempo e si eliminano gli istituti che comportano segregazione e custodia dell’alienato, tanto che la legge fa espresso divieto di costruire manicomi.....il malato di mente è un malato come tutti gli altri e quindi va curato come tutti gli altri infermi... Come si vede la mutata “ratio” normativa dell’attuale politica sanitaria, ha abrogato totalmente le vecchie norme, basate su desueti principi giuridici”. Purtroppo alla Cassazione tali principi non sono apparsi desueti, ma vigenti ed applicabili a tutt’oggi, mentre il giudice di Como aveva affermato sempre nella sua sentenza che “Non esistono più alienati mentali, ma esistono malati psichici. Per tutti i malati, anche quelli psichici la cura è gratuita.. In conclusione la legge 180/78 ha radicalmente abrogato il regio decreto 615 del 1909.... Così come ha abrogato la legge 3.12.1931 n. 1580”. Tale sentenza è stata successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Milano che ha ribadito le stesse motivazioni. In particolare le due sentenza hanno fatto riferimento ad una precedente pronuncia della Corte di Cassazione la n. 10150 del 20.11.96: “con riferimento ai malati mentali cronici, in base al contributo disposto degli articoli 1, 51 e 75 della legge n. 833/78, della legge n. 730/83, nonché agli articoli 1 e 6 del DPCM dell’8 di agosto 1985, nel caso in cui , oltre alle prestazioni socio assistenziali, siano erogate prestazioni sanitarie, l’attività va considerata di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del servizio sanitario nazionale,; qualora invece, sia prestata soltanto un’attività di sorveglianza e di assistenza non sanitaria, l’attività va considerata di natura socio-assistenziale e pertanto estranea al servizio sanitario”. Tale disposizione viene negata dalla attuale sentenza della Corte Suprema che rovescia il discorso dicendo in pratica che sono le prestazioni sanitarie ad assommarsi a quelle socio assistenziali. In pratica la Corte di Cassazione con questa ultima sentenza che riforma le due precedenti nega che la legge 833/78, la legge 180/78 non hanno radicalmente cambiato tutolo scenario rispetto al precedente regime, non solo, ma nemmeno la legge sulle rivalse del 1931 n. 1580 viene considerata superata anche se è cambiato regime, è cambiato sistema sanitario, è cambiata la ragione profonda che ha ispirato la nuova legislazione sanitaria. Per la verità la Cassazione si è adeguata all’attuale momento politico. E’ vero che la Magistratura, quale potere giudiziario deve essere distinto dal potere esecutivo, tuttavia il clima è determinante per tutti . Resistere ed essere in grado di difendersi è di pochi. Il nodo politico è quello che risale all’invenzione del sistema “socio assistenziale”. Una parola e un sistema che non deriva ne dalla legge di riforma sanitaria e tanto meno dalla legge 180. Secondo queste leggi come ci ha ricordato il giudice di Como la risposta al bisogno di salute risulta essere unitaria ed unica. L’intervento sanitario deve prendere in considerazione la globalità della persona e non considerarla una somma di due semi entità, quella sanitaria e quella socio-assistenziale. Per cui non si tratta di “integrare” due entità che sono state divise, ma di riunificare di ricondurre ad unità ciò che arbitrariamente e per altri fini è stato separato. Questa distinzione sorta dopo la legge 180 e la 833, precisamente con la legge (finanziaria per il 1984) n. 730 del 1983 (articolo 30) e specificata dal DPCM dell’8 di agosto del 1986 è nata per un problema di carattere economico. La spesa sanitaria aveva cominciato a lievitare. Le modalità per ridurla potevano essere tante. Si potevano bloccare le assunzioni di personale, come si potevano imporre i ticket. Ed ancora si poteva ridurre l’impatto delle categorie che più avevano bisogno di interventi sanitari, particolarmente i malati cronici, grandi consumatori di farmaci e di interventi sanitari in genere. Un malato cronico in una situazione “stabilizzata” aveva certamente bisogno di cure e assistenza, ma non era un malato acuto, pertanto poteva essere tagliato fuori dal servizio sanitario nazionale se non in tutto almeno in parte. Certo, è stato detto, l’attività sanitaria e quella “di rilievo sanitario” (altra dizione assolutamente confondente) è a carico del servizio sanitario, ma quella socio-assistenziale è a carico di altri. L’inganno formidabile è stato quello di attribuire alla attività non sanitaria o di rilievo sanitario ciò che comunque serviva alla cura e alla riabilitazione del soggetto malato. Una volta stabilita questa separazione, una volta divisa la persona si è studiato a chi attribuire i costi. Prima di tutto alla persona, poi ai comuni, i quali però in forza della legge 1580 del 1931 potevano rivalersi sui famigliari. Una legge che dalla recente sentenza della Cassazione è stata ritenuta ancora valida, nonostante la Costituzione che ha garantito per tutti il diritto alla salute oltre che stabilito l’eguaglianza fra i cittadini e nonostante la legge di riforma sanitaria che ha istituito il servizio sanitario nazionale. Certamente la Cassazione ha cambiato linea tanto che si arrampica sui vetri per spiegare come una sua precedente sentenza, che citiamo un’altra volta, sia stata male interpretata. Eppure come si possono non capire queste parole: "con riferimento ai malati mentali cronici, in base al contributo disposto degli artt. 1, 51 e 75 legge n.833 / 1978, 30 legge n. 730 / 1983, nonché 1 e 6 D.P.C.M. 8 agosto 1985, nel caso in cui , oltre alle prestazioni socio assistenziali, siano erogate prestazioni sanitarie, l’attività va considerata di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del Servizio sanitario nazionale; qualora invece, sia prestata soltanto un’attività di sorveglianza e di assistenza non sanitaria, l’attività va considerata di natura socio assistenziale e, pertanto, estranea al Sevizio sanitario” (Cass. 20.11.96 n. 10150 ). La medesima sentenza spiega come il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 agosto l985 "non ha valore normativo avendo esclusivamente una funzione di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali e delle province autonome in materia sanitaria". Tale sentenza chiarisce anche che "le prestazioni sanitarie, al pari di quelle di rilievo sanitario, sono oggetto di un diritto soggettivo...". Inoltre, con molta precisione, afferma che non può esservi trattamento giuridico differenziato fra malati acuti e malati cronici, confermando così quanto già molti sostengono, e cioè che "di tale distinzione nella legge non c’è traccia, che prende in considerazione l’attività di cura, indipendentemente dal tipo di malattia (acuta o cronica) alla quale è diretta e pertanto se la disposizione dell’atto di indirizzo e di coordinamento avesse introdotto tale differenza sarebbe certamente contra legem e come tale disapplicabile dal giudice ordinario". Il Consiglio di Stato con tre sentenze di cui alla fine riportiamo un commento va in altra direzione; stabilisce con chiarezza che è il servizio sanitario nazionale che si deve fare carico dei malati siano essi cronici o stabilizzati. ( Si veda in proposito anche l’articolo su 24ore Sanità del 14-20 dicembre 2004:, a pag. 25: “Cassazione: marcia indietro dei giudici sulla ripartizione degli oneri fra SSN e Comuni)” La sentenza della Cassazione che stiamo commentando inoltre fa anche cenno alla normativa più recente, particolarmente al decreto del presidente del consiglio dei ministri del 14.02.2001 inserito nella legge finanziaria per il 2003 (articolo 54) il quale al punto 1 C AREA DELL’INTEGRAZIONE SOCIO SANITARIA riepiloga in una tabella “le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo non attribuibile alle risorse destinate al Servizio Sanitario Nazionale”. Per esempio attribuisce per il 60% i costi a carico dell’utente o dei comuni per le persone con malattia mentale “per le prestazioni terapeutiche e socio riabilitative in strutture a bassa attività assistenziale”. Nonostante ciò le sentenze citate del Consiglio di Stato attribuiscono tutta la Spesa al Servizio Sanitario nazionale. Ed ancora nella pratica tutto continua come prima perché la gran parte delle strutture residenziale sono a carattere privato (Aziende per i Servizi alla Persona (ASP) oppure Fondazioni, quindi operano in base ad un contratto che impone alla parte contraente (in genere un famigliare dell’assistito) di pagare una certa retta. Ne, salvo eccezioni, i comuni intervengono per la parte di retta che l’utente con il suo reddito e patrimonio non è in grado di sostenere, nonostante quanto previsto dall’articolo 2 comma 6 del decreto legislativo 130 del 2000. Sembra non esservi scampo se sei malato devi pagare il ticket, se sei malato cronico devi pagare la retta e se ti mancano i soldi la devi fare pagare ai tuoi famigliari. La sentenza della Cassazione di cui parliamo si muove in questa direzione. Ma noi non ci fermiamo, sapendo che anche la Cassazione e i Tribunali possono cambiare come è successo qualche giorno fa al processo contro l’ex ENICHEM di Marghera quando la Corte d’Appello di Venezia ha riformato in parte, ma sostanzialmente, la sentenza di primo grado che aveva mandato assolto tutti gli imputati), così ci dobbiamo dare da fare per cercare se non di mutare il giudizio almeno di attenuarne le conseguenze. In effetti la Cassazione ha rinviato per il giudizio finale gli atti alla Corte d’Appello di Torino. Dovremo essere in grado, ricorrendo da parte nostra al Tribunale di Torino, con una ricostruzione puntuale, precisa e dettagliata, di dimostrare la malattia, anzi le malattie dei ricorrenti malati mentali dell’ex O.P. S. Martino di Como, raccontando la loro storia manicomiale e patologica, facendo notare come se non fossero stati malati, o se lo fossero stati solo parzialmente; quindi se fossero stati semplicemente o in parte “custoditi” qualcuno non ha fatto il suo dovere. Non solo infatti queste persone, dopo la legge 180 avrebbero dovute essere prese in carica dalla sanità, quindi curate e non custodite, ma oltretutto invece che essere curate se fossero state solo custodite, oltre i danni pure ci sono state le beffe, perché per la loro custodia hanno pure dovuto pagare.

Fulvio Aurora Milano, 27 dicembre 2004




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