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oggi è il: 29|03|2024
La bozza di Piano regionale del Piemonte deve cambiare la sua impostazione di fondo per non rischiare di ridursi solo a un lavoro di tagli di risparmio e di riorganizzazione amministrativa della burocrazia gestionale.

La filosofia di un Piano sociosanitario mirato al lavoro per la salute.
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Un piano socio-sanitario è sempre vissuto in maniera ambivalente dai professionisti sanitari. Da un lato rimette in gioco speranze e volontà di cambiamento, dall’altro viene ricevuto con una certa dose di scetticismo, dell’ennesimo documento che forse è perfino inutile leggere. Alcuni di noi ne hanno infatti già vissuto e sperimentato precedenti edizioni che in verità mancava all’appello da circa una decina d’anni. Anni in cui si sono sedimentate diverse preoccupazioni per la deriva che abbiamo visto intraprendere, con la sensazione di essere ormai andati al di là del punto di non ritorno, di aver ormente ai fini stessi. Valori definiti da principi costituzionali. E come successivamente per l’azienda successivamente introdotta la salute sia diventata un risultato dipendente da valori economici acquisiti posteriormente ai fini, cioè alla disponibilità delle risorse. Basti citare il decreto 502 che pone l’enfasi soprattutto sui mezzi e sulle loro problematiche con un evidente inversione. Ed un impegno in più: il tentativo di dimostrare che i suoi valori economici fossero in realtà anche dei valori etici. Proprio qui sta la preoccupazione fondamentale: non riuscire più a ritornare indietro da questo assunto. Come non sono riusciti a tornare indietro da questo assunto proprio gli snodi amministrativi a cui sempre più vengono delegate le politiche sanitarie: le Regioni.

E qui nasce un’altra preoccupazione: le politiche delle Regioni sembrano essere completamente influenzate dalla responsabilità per il mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario più che dalle opportunità create dall’autonomia delle funzioni. La stessa accentuazione dell’aspetto di responsabilità economica spinge sempre più a caratterizzare il proprio ruolo più come ente capogruppo delle aziende sanitarie che non come ente di programmazione, di indirizzo e controllo di un sistema di aziende.

Una tendenza che porta l’ente regionale a configurarsi più come livello di amministrazione - che pretende di governare il sistema con la moltiplicazione delle competenze amministrative nei confronti del livello di gestione - che come livello di indirizzo e programmazione. Con la passione di voler regolare anche questioni di non stretta competenza, di voler entrare nella regolazione di tutto il sistema, moltiplicando il sistema di controllo comprendente “iniziative per lo sviluppo professionale”, progettazione organizzativa, pianificazione aziendale, valutazione economica fino ad arrivare ai sistemi di gestione delle relazioni con i destinatari. Il delirio tecnocratico, dove appunto la politica veniva interpretata come gestione manageriale che creava le premesse per obiettivi primari di gestione prima che di salute efficacemente riassunta dallo slogan: dal governo della salute all’amministrazione della sanità.

Una conseguenza? Ridurre il problema sanitario a problema di sprechi. Che esistono senza dubbio, ma che non possono rappresentare l’obiettivo di una politica sanitaria. La politica diventa gestione e quindi non riesce a vedere più in avanti della semplice cassetta degli attrezzi. Con una logica dei tagli semplice: non si dice che si debba tagliare la spesa riducendo i servizi, ma solo non finanziando gli sprechi. Un servizio, un ambulatorio, un ospedale possono cioè diventare semplici sprechi da “razionalizzare”. Una banalizzazione inaccettabile della politica. Perché un sistema complesso di sprechi è il frutto dell’intreccio di interessi, coperture, commistioni che non è possibile sciogliere con la semplice mannaia gestionale. Ma soprattutto pone nella condizione acritica di proporre politiche indiscriminate ed indistinte di contenimento della spesa tout court. Sprechi, si badi bene, che pian piano diventano anche “risorse umane”.

Con una sordità di fondo sulle risposte degli operatori che ripongono il problema partendo dalle persone e non dalle cose. Per i quali solo una politica che consideri la lotta alle diseguaglianze di salute può diventare una giusta strada sulla via di una vera prevenzione, della possibilità di ripensare il rapporto bisogni/risorse, di una quota di salute immediatamente a portata di mano ottenibile senza costi aggiuntivi.

Senza parlare dell’appropriatezza. Ma di quale appropriatezza stiamo parlando? Del rapporto rischi/benefici? Del rapporto benefici/costi? O adeguazione quale criterio per una buona pratica clinica, criteri di verità circa il malato per i quali la scelta del medico, dell’infermiere è giusta se si adegua al malato ed alle sue necessità, cioè se si assimila e corrisponde ad esso in modo da riprodurre il più possibile lo schema umano. Ma il malato è la misura della scelta operativa? O la scelta clinica è la misura del budget? Appropriatezza vuol dire commisurazione a: ma a cosa? L’appropriatezza è sempre vista negli atti aziendali e regionali come gestione delle evidenze quindi gestione delle scelte obbligate: se x allo y. Ma soprattutto è vista come obbligo di specificazione di quanto è erogabile con onere a carico del servizio sanitario. In sostanza si resta fermi al principio che l’appropriatezza prima di essere un principio di buona pratica clinica, rischia di apparire come criterio di buona pratica gestionale. In un sistema gestionale attuale l’appropriatezza è alla fine far coincidere i costi di gestione con il finanziamento.

Ma questo vorrebbe dire ripartire, appunto, dalla centralità del lavoro in sanità. Una scommessa che al momento è difficile anche pensare. Meglio pensare agli operatori come variabile in mezzo ad altre, resuscitando problematiche di assenteismo, contrattuali. Dimentichi del fatto che gli operatori sono in questo momento i garanti più vicini al cittadino che ne interpretano giocoforza i bisogni. Hanno cioè una funzione di “agente” per conto di.

Oggi la scarsa autonomia dei professionisti sanitari sta portando gli stessi operatori a deviare la domanda dei cittadini verso altre articolazioni amministrative. Gli operatori cioè non possono dare più risposte sufficienti. Con un’analisi immediatamente chiara ai professionisti: l’attuale assetto istituzionale relativo al governo dell’azienda è incompleto perché concepito prevalentemente come amministrazione istituzionale in antitesi a qualsiasi forma di amministrazione sociale. Il governo delle risorse è rappresentato dalla Regione e dai direttori generali. Ma quello dei bisogni, del consumo, della domanda sociale è semplicemente sussunto da questi. E ciò porta inevitabilmente a porre i bisogni e le risorse come variabile di un imperativo gestionale. La domanda sociale diventa una semplice forma dell’offerta istituzionale. E qui sta il principale corto-circuito dell’azienda attuale.

E questo processo,come precedentemente richiamato non riguarda solo la domanda sociale. Anche gli operatori assumono questa valenza. Anch’essi finiscono per essere assunti come variabili tecnico-professionali in dipendenza dell’autonomia gestionale del direttore generale. La domanda vera risulta quindi essere la progettazione non tanto di altre articolazioni che possano controllare l’autonomia della spesa, ma un organismo che rappresenti la domanda sociale, che ne garantisca gli interessi e la dialettica tra ciò che rappresenta il bisogno e ciò che rappresenta le risorse. Finora la risposta che viene data a tutti i livelli è sostanzialmente il consiglio di amministrazione. L’estensione di questa collegialità a qualche alto funzionario non risolve certamente il corto-circuito.

Il problema è semmai è il corto-circuito che si verifica tra la gestione e l’amministrazione in assenza di una dialettica tra domanda ed offerta, tra società ed istituzione, tra operatori ed istituzioni. Ma soprattutto è l’assenza di una qualsiasi possibilità di negoziazione sociale nel contratto sociale implicito tra bisogni e risorse. In sostanza è necessario ipotizzare una struttura giuridicamente valida di rappresentanza sociale, intermedia al rapporto tra azienda e Regione con il compito di definire le condizioni del contratto sociale, dotata di una propria organizzazione. Quindi un organo rappresentativo da istituire a livello aziendale o interaziendale a cui affidare il compito di avanzare le condizioni all’azienda relative alla tutela della salute.

E qui iniziamo a vedere un altro sistema sanitario più aderente a gestire la complessità. Un’azienda che regola in modo dialettico il rapporto tra bisogni e risorse. L’attuale contratto con il quale la Regione attraverso l’azienda assicura il sistema di salute è incompleto proprio perché accomuna realtà diverse rendendo indistinguibile l’istituzione dagli operatori e questi dagli strumenti aziendali.

Sarebbe meglio immaginare quindi un contratto di salute promosso dall’istituzione attraverso l’azienda che si avvale degli operatori.Ciò non mette in discussione l’unitarietà del sistema ma serva ad articolare meglio il sistema dell’offerta ed il sistema di comando. Da una parte si pone infatti un comando politico-istituzionale che attraverso le politiche di programmazione politico-istituzionale che , attraverso le politiche di programmazione, di pianificazione, di legislazione traduce in scelte di politica sanitaria i termini del contratto sociale. Dall’altra, nelle figure amministrative dell’azienda sanitaria si pone il comando delle funzioni attinenti alla transazione tra bisogni e risorse. Infine si pone un terzo comando attinente all’esercizio dell’autonomia tecnico-funzionale dei servizi.

Comando, è bene ribadirlo, che non si risolve stabilendo semplicemente una gerarchia. E qui sfioriamo un altro problema nodale perché il sistema delle gerarchie subalternanti funzionano solo per opposizione tra generale e particolare in rapporto conflittuale. Il sistema sanitario funziona se il sistema domanda/offerta ha appunto i caratteri del contratto sociale e se funziona per committenza, intermediazione e esecuzione. Ma soprattutto se si chiarisce una volta per tutte che l’autonomia è un concetto sia di indipendenza che di capacità rispetto a qualcosa che si vuole determinare. Senza le attuali confusioni ed ingerenza negative. Così l’oggetto proprio della Regione sarà di tipo politico-finanziario, quello del direttore generale sarà la possibilità del rapporto bisogniù7risorse, quello degli operatori saranno i malati. Ma su quali gambe può camminare tutto questo discorso? Qual è il soggetto il cui ruolo deve essere effettivamente riformato ed assumere un ruolo centrale?

Anche qui l’attenzione gestionalistica e tecnocratica ha portato ad individuare questo soggetto soprattutto nel direttore generale.

Ma lasciateci dire che il busillis sta come sempre in chi effettivamente svolge la funzione finale:l’operatore sanitario. A condizione che si esca dalla logica attuale in cui venga superato anche nell’estensione dei piani sanitari l’idea che sia uno strumento, un mezzo o genericamente una risorsa. L’operatore sanitario è un soggetto di capacità, abilità, conoscenza che usa se stesso per produrre tutela. L’operatore sanitario ha una complessità molto più ampia di quella con cui viene richiamato nei piani e non è riducibile alla tecnica in quanto il suo contenuto è anche scientifico, etico,sociale, culturale e relazionale. “ Ridurre l’operatore a mezzo è come considerarlo uno strumento per il raggiungimento di un fine o come l’esecutore di propositi altrui a lui estranei.

Ridurre l’operatore a risorsa significa considerarlo un bene spendibile o come un capitale da investire” dice giustamente Cavicchi. Non è nemmeno un soggetto da “informare” con nuove nozioni, da far girare nella formazione degli ECM o semplicemente da ricompensare in maniera diversa pena la perdita della propria professionalità. Egli è un autore che deve concordare degli impegni e non un semplice dipendente che deve eseguire dei compiti. L’operatore come autore è la base del ripensamento del lavoro di tutela.

Forse semplici preoccupazioni, è vero. Ma basi concrete ineliminabili, da cui sarebbe partita la scrittura di un piano sanitario fatta dai semplici operatori sanitari. Quelli veri che spingono le barelle e fanno straordinari non pagati. Che vengono accusati di assenteismo e trattati come variabile economica. Da questa bozza di piano. Che sperano che il vero piano dica altre cose.

Dorino Piras - Franco Cilenti


il Piano secondo noi.
a cura di operatrici e operatori della sanità

Come operatori della sanità piemontese esprimiamo costruttivamente le nostre perplessità su questo piano. Crediamo che un tema come la salute delle persone non possa risolversi con semplici parole d’ordine ma debba essere affrontato secondo il filo logico del recupero della salute diseguale delle fasce sociali più deboli, che rappresenta un serbatoio a cui attingere immediatamente senza aumentare la spesa sanitaria.

Riteniamo imprescindibile una ricostruzione a monte del concetto di lavoro per la salute che veda come premessa un intervento deciso su cooperative che si configurano come vero e proprio caporalato nelle ASL, imperando con lavoratori precari e sottopagati.

Verifichiamo un preoccupante silenzio sul ruolo delle Università, veri nidi di baronie, a fronte di un facile populismo che si riduce al taglio dei Direttori Generali e che passa ancora in silenzio il moltiplicarsi di inutili primariati che hanno prosperato nella disastrosa gestione sanitaria della giunta Ghigo. Basterebbe segnalare come esistano direttori di reparti che non hanno posti letto. Intanto la destra fa la campagna elettorale parlando liste d’attesa!

Con vero con piglio “decisionista” si è voluto “chiudere” i tempi di consultazione per non dare, si è detto, il fianco alle destre in campagna elettorale, mentre a noi sembra che in verità un vero e proprio regalo a lorsignori, a dispetto di chi lavora sul campo oltre a chi, come le associazioni degli utenti, avrebbe voluto più tempo per capire e interloquire con un assessore e una Giunta di centrosinistra coscientemente votati. Ma anche a quelle istituzioni territoriali, quelle veramente a contatto con i cittadini, come le Circoscrizioni che per recuperare una vera funzione di “ megafono dei bisogni” ambivano ad un rapporto privilegiato” con il governo regionale.

Certamente questa accelerazione nella chiusura del Piano ha colto di sorpresa anche noi che stavamo preparando un propositivo e articolato apporto al lavoro del nostro assessore alla sanità. Invece siamo costretti ad una sintesi dalla quale, comunque, se l’assessore vorrà darci ascolto troverà in queste pagine elementi diretti ad una sostanziale modifica dell’impianto della sua bozza di Piano sociosanitario. La nostra è una cosciente richiesta anche per ancorare il Piano ad una concretezza di programmi e di atti, di fronte all’evidente tentativo di tanti, anche nella Giunta, di snaturare ogni prospettiva di cambiamento.

Sintesi della discussione a cura di: Franco Cilenti, Arnaldo Sanità, Marco Prina, Marco Forni, Roberto Bertucci, Jerry Scotellaro

UN PIANO SANITARIO A MISURA DI CHI?

I principi a cui si appella il nuovo piano sanitario regionale dell’assessore Valpreda sembrano in prima battuta del tutto condivisibili. Qui vi si denuncia per la prima volta a chiare lettere i limiti del mercato come termometro di valutazione dei bisogni di salute; si fa appello a una maggiore attenzione alla prevenzione e alla riabilitazione; si critica la visione troppo centrata sull’ospedale del servizio sanitario; si rivendica una maggiore integrazione fra sociale e sanitario; si vuole valorizzare il pubblico rispetto al privato, dandone una maggiore trasparenza gestionale e favorendo una più ampia partecipazione del cittadino.

Tutto bene, dalle prime pagine. Sembra proprio il piano sanitario che ci aspettavamo non solo “noi” del fantomatico “popolo di sinistra”, ma anche il cittadino qualunque che vuole meno code, meno attese per visite ed esami, meno ricoveri lunghi ed estenuanti, più assistenza alla persona, più gentilezze e attenzioni da parte di un servizio sanitario che a volte tutto sembra meno che un organizzazione volta a mettere al centro il cittadino e il suo diritto alla salute.

E invece andando avanti nella lettura ... si scopre di cadere progressivamente dal bel mondo “iperuranico” delle idee in quello prosaico degli interessi corporativi, delle pressioni e dai ricatti delle lobby politiche e non. Nulla a che vedere con la salute del cittadino, ma certamente con la gestione di un grande circo che fa girare miliardi di euro e che rappresenta la più grande voce di bilancio di una regione.

Vediamo brevemente alcune cose che risultano poco chiare a grandi linee di questo piano.

I limiti del mercato in sanità...

Il titolo del paragrafo è altisonante, ma la critica è deludente. Anzi più che una critica del mercato pare una critica della mancanza di vero mercato in sanità. Secondo l’assessore l’esistenza di un terzo incomodo che si fa carico delle spese (cioè l’ente pubblico) toglie qualsiasi freno inibitore alla domanda, che risulta senza limiti “a livello individuale” (sic!); esistono inoltre elementi di distorsione da parte dell’offerta che può essere interessata a indurre una crescita di domanda di determinati servizi sfruttando l’ignoranza dell’utenza o la scarsa informazione sui servizi presenti sul territorio data dai limiti di pubblicità in campo sanitario.

Va da se che per ragionamenti di questo tipo la domanda indotta o aggiuntiva è un danno perché provoca spese per l’ente erogatore che se ne fa carico. Rimane un mistero con quali criteri la Regione andrà poi a giustificare il mantenimento o l’amputazione di determinati servizi. Quello che ci pare grave è che qui si continua ancora a ragionare secondo criteri aziendalisti di spesa (ma l’azienda, in questo caso è l’Assessorato alla Sanità regionale), senza risolvere in questa maniera i problemi delle prenotazioni e attese in sanità che tanto preoccupano il cittadino. Se una domanda cresce, se un servizio trova una grossa affluenza di pubblico, non è domanda indotta o aggiuntiva da mancanza di freni inibitori a ”livello individuale”, bensì una necessità provata sul campo che va soddisfatta moltiplicando e potenziando i servizi sul territorio. Quei servizi che invece non funzionano, che non “inducono” code avendo una scarsa affluenza, vanno semplicemente soppressi.

Purtroppo crediamo che questo cappello ideologico nasconde una brutta intenzione centralista capace di decisioni del tutto arbitrarie, queste si incontrollate e “senza limiti”.

La partecipazione del cittadino

In qualche passo si parla di partecipazione. Diciamo si parla. All’atto pratico alle scelte di attuazione del piano sanitario a livello delle singole asl è contemplata la semplice presenza dei sindaci dei territori interessati. I sindacati non esistono, neppure i consigli di quartiere, neppure le associazioni di volontariato o della società civile (Tribunale del malato, associazione dei consumatori, ecc.). Non parliamo poi di assemblee aperte... lo spirito di Porto Alegre alberga solo più in qualche convegno impolverato dal chiacchiericcio, giusto per essere riscoperto alle feste di partito, non certo in questa giunta regionale.

L’accorpamento delle ASL

Questa è la parte più controversa. Nel piano non se ne parla, ma nella proposta di legge regionale sulla programmazione socio-sanitaria e il riassetto del servizio sanitario si.

Qui con la semplice clausola che un asl per essere tale deve coprire come minimo un territorio di 500 mila abitanti si pongono le premesse per la ricostruzione della fantomatica USL 1/23 di Torino.

Il che vuol dire burocratismo, elefantiasi, centralizzazione sugli appalti senza maggior partecipazione e controllo da parte degli operatori interessati, rischio di diseconomie, ritardi nelle forniture e dunque nei servizi, senza con questo avere una maggiore adesione alle varie esigenze dei territori. Per non parlare di quali contratti integrativi verranno applicati alle nuove asl: i peggiori, i migliori o le vie di mezzo?

Questa proposta dell’accorpamento segue una moda nazionale, che piace già tanto alla destra. Ma non è assolutamente argomentata e dimostrata. Forse è produttiva di un risparmio attraverso la produzione di un esubero di personale amministrativo? Non crediamo perché verranno rafforzate le aree distrettuali, con relative dirigenze e lavoratori al seguito.

Forse produrrà una maggiore razionalizzazione della distribuzione del personale, delle risorse, dei servizi, degli appalti? Assolutamente no. I difetti che già si riscontrano a livello di una singola ASL saranno moltiplicati per quattro con la grande ASL di Torino, in mancanza di un piano di informatizzazione di tutti i servizi, di tutti i presidi, costruendo un’autentica banca dati.

Con questo non si nega la necessità di un maggior controllo (e il piano sanitario, viva dio, lo prevede) su appalti, esternalizzazioni, per combattere diseconomie e sprechi. Ma non è con il gigantismo che si ottengono le “economie di scala” - come vorrebbe il piano. L’unica “economia di scala” che gli è concessa a questa bella trovata è quella di far fuori qualche direttore generale di troppo: ma ci voleva un provvedimento populista per far questa piccola operazione? Semmai, per rientrare nello spirito della vecchia riforma sanitaria, ci vorrebbe più decentramento e dunque più asl (a Torino una per circoscrizione!). Comunque sia, questo lato oscuro del piano piace solo alle dirigenze di DS, Margherita e, non capiamo perchè’, alla Cgil. Finora parlandone in giro con operatori, delegati, non abbiamo ancora trovato qualcuno che si rotolasse dalla gioia...anzi.

Risorse umane, operatori socio-sanitari: quasi invisibili...

Nel merito il taglio del Piano è molto manageriale (seppur illuminato). A parte il riscontro obbligato del gran valore delle risorse umane nell’ambito sanitario (lo capirebbe anche una talpa!), le maggiori preoccupazioni sono rivolte a: valorizzare i dirigenti, sviluppare una maggiore politica degli incentivi legati al risultato, combattere l’assenteismo, controllare le dotazioni organiche in rapporto alle attività e alle esternalizzazioni, valorizzare la formazione ... avocando alla Regione la gestione degli ECM, attuando una maggiore programmazione anche in collegamento con Università, istituzioni scientifiche e agenzie formative. C’è da farsi venire i brividi.

-  Primo: perché l’accoppiata potenziamento del ruolo dei dirigenti e sviluppo degli aumenti salariali attraverso gli incentivi legati al risultato sono una classica formula tanto cara al pensiero confindustriale, finalizzato alla resa, comunque vada.

-  Secondo: il problema dell’assenteismo viene associato all’organizzazione del lavoro e al clima aziendale. Giusto. Ma non basta. C’è anche un problema generale di scarsità del personale sanitario che tende a caricare i pochi, aumentando la pesantezza del lavoro, la frustrazione (per non riuscire a stare dentro i livelli minimi di assistenza), e che porta inevitabilmente come un boomerang anche a una maggiore usura del personale, dunque alla malattia, dunque all’assenteismo. Sarebbe interessante, nel merito, una bella indagine da parte della Regione delle tipologie di malattie più frequenti presso il personale sanitario e che spesso non vengono nemmeno riconosciute come malattie professionali...

-  Terzo: il controllo delle dotazioni organiche in rapporto alle attività o il controllo sulla validità economica (in termini di risparmio) delle esternalizzazioni sono punti di vista limitati. Le dotazioni organiche andrebbero ricalcolate e valutate secondo standard di assistenza per settore e servizio (medicina, chirurgia, domiciliare, ambulatorio, ecc.), altrimenti si cade negli atti deliberati e improvvisati, molto pericolosi. Le esternalizzazioni, invece, andrebbero valutate per quanto lavoro precario, instabile producono, per le condizioni di lavoro che generano fuori dal controllo delle asl, dei sindacati, dei contratti di settore. Per fortuna che ultimamente l’assessorato pare si sia dimostrato sensibile ad affrontare il problema di un maggior controllo sugli appalti che vada incontro alla tutela dei lavoratori precari...

-  Quarto: la formazione non va solo centralizzata dal punto di vista della programmazione, ma andrebbe garantita equamente a tutti gli operatori, grazie anche solo all’istituzione di una banca dati che favorisca la gestione e l’equa redistribuzione dei crediti formativi. Se no quello che già vediamo a livello di singole aziende , lo rivedremo riproposto microscopicamente a livello regionale.

Altra cosa che stride, in questo risicato, ma pur strategico paragrafo del Piano è l’assenza di una parola indirizzata a sostenere una maggiore autonomia e ruolo degli operatori professionali, soprattutto di quelli rivolti all’assistenza e cura. E’ questo uno degli assi portanti della sanità, ma viene assolutamente dimenticato. L’autonomia e il maggior ruolo - guardacaso - è attribuita ai dirigenti, ma non a chi può attraverso una maggior indipendenza dal ruolo dirigenziale-medico ottemperare a una miglior resa di servizio e un più virtuoso risparmio di risorse.

Mi chiedo perché mai in un piano che è dedicato alla prevenzione e poi alla cura/riabilitazione post-ospedaliera non si insiste sul possibile ruolo degli infermieri e degli oss nell’assistenza domiciliare, nelle RSA, nelle case protette, nei day hospital, in molti servizi ambulatoriali sganciato dal ruolo dirigenziale del medico. Ci chiediamo perché continuino ad esistere - ad es.- servizi domiciliari che dipendono da una figura dirigenziale medica. Perché il piano non dedica una parola in merito, perché non fa piazza pulita di queste anomalie derivate da un’ingombrante passato? Perché non si capisce che su questo genere di servizi il ruolo medico è ormai derubricabile a semplice consulenza, ottemperando in tal senso a grandi risparmi di risorse?

Razionalizzazione del territorio attraverso la razionalizzazione della rete ospedaliera

Qui il Piano dimostra tutte le sue contraddizioni. Parliamo della contraddizione fra l’idea (bella) e la realizzazione (brutta) mediata con la politica intesa solo come gestione dell’esistente.

Toccare gli ospedali vuol dire toccare le parti grasse della sanità. Questo l’assessore lo sa. Tanto che si permette sull’area metropolitana di Torino di chiosare sull’eccesso di offerta ospedaliera per Torino sud, e di carenze per la parte nord, finendo infine per affermare che secondo le linee guida internazionali un ospedale non dovrebbe superare gli 800 posti letto.

Dunque siamo prossimi alla chiusura di metà delle Molinette o alla separazione fra la parte ospedaliera e quella clinico universitaria?

Assolutamente no. Anzi, si potenzia il polo universitario del San Luigi di Orbassano (sud-ovest), si potenzia il Mauriziano (centro-sud), si riducono di poco i posti letto per l’ASL 3 trasferendoli all’ASL 4 (Torino nord). Le Molinette rimangono integre, mentre il progetto di Molinette 2 viene rimandato ad una apposita commissione che - probabilmente - ne prolungherà l’agonia virtuale. Nel frattempo per riequilibrare il gioco delle tre carte metropolitane, si prevede la costruzione di un nuovo ospedale nella zona nord-ovest, che dovrebbe soddisfare le esigenze della parte nord di Torino, chiudendo le porte definitivamente alla costruzione di un nuovo ospedale a Venaria.

Siamo dunque di fronte ad un evidente caso di schizofrenia, ma ad eziologia ben determinata: le pressioni e gli interessi che si annidano intorno ai grandi presidi impediscono alla penna giacobina dell’Assessore di fare il suo corso. Ahinoi, debolezze della politica. istituzionale, quella che tende a tener lontani operatori e cittadini. Abbiamo perso una grande occasione di cambiamento?

Ora, noi certamente non intendiamo riscrivere tutto il piano sanitario, ma come operatori di tutte le professionalità vogliamo dare una traccia sulle linee, a nostro modesto parere, portanti.

Parliamo dalla città di Torino

Riteniamo che per mantenere un vero controllo partecipativo da parte delle circoscrizioni le ASL debbano rimanere quattro, ma non solo per questo, anche perchè il modo di fare sanità è cambiato. L’ospedale non è più il posto dove vai per le acuzie, è realmente integrato con il territorio. Una volta se avevi bisogno di un by-pass coronarico andavi alle Molinette, ti facevano quello che dovevano, poi ti dimettevano con la terapia e “torni fra un mese per il controllo....”.

Oggi non è più così, oggi non solo alle Molinette ti mettono il by-pass e poi scatta la differenza; viene contattato il medico di famiglia, gli si spiega cosa ti è stato fatto, quale terapia devi seguire, cosa deve fare il medico in caso di necessità. Insomma attraverso questa inversione di tendenza, si sono ottenuti molteplici risultati.

Il primo è di avere riportato il cittadino-malato al centro della scena, non è più un pacco postale, la seconda è che il medico di famiglia non è più un semplice scrivano delle ricette, tant’è che si aggiorna e viene aggiornato, interagisce con gli specialisti, ma soprattutto il cittadino malato sente la continuità di validi professionisti che intervengono, lo seguono e lo curano fino al suo domicilio. Con questo piano si dice che l’ospedale è il momento dell’acuzie per poi lasciare il cittadino malato sulla soglia del nosocomio, teoricamente seguito da un servizio territoriale privo di forze, strumenti e possibilità d’intervenire in modo efficace. Questi cambiamenti non sono certo frutto della precedente giunta di destra, sono il convergere di forze della società civile, i sindacati del comparto e medici, le associazioni democratiche che si occupano di salute. Alcuni settori possono essere sovrazonali o cittadini, si pensi ad esempio, ai SERT, i quali potrebbero per struttura e tipo di lavoro ad alto impatto sociale, diventare una rete cittadina.

Altro settore di enorme importanza è quello dei consultori, i quali svolgono un tipo di azione delicata e sulla quale le risposte date alle cittadine sono incrementabili sotto ogni profilo. Per il resto però no, non ci siamo nel modo più assoluto. Si parla di mantenere in piedi delle aziende sanitarie (ASO) prive di ogni senso, in contrasto con la legge che a queste attribuisce precise caratteristiche per esistere, ci si guarda bene dal dire che l’Ospedale Mauriziano, ormai spogliato e depredato, ma che resta comunque un presidio d’eccellenza, esiste all’interno di una ASL, la 1 che è priva di ospedali.

Infine, vorremmo, anche con azioni coercitive della Giunta, che i potentati delle università in Piemonte uscissero da una logica che trasuda “cappuccio e grembiulino” per mettersi realmente al servizio dei cittadini. Buon lavoro assessore!

Ora, per non farla lunga e dato che non ci è stato dato modo e tempo per un’interlocuzione mirata ai singoli punti della bozza di Piano sociosanitario, ci limitiamo ad una sintesi della nostra proposta:

ASO IN PIEMONTE:

-  Novara -Molinette -San Luigi

-  OIRM/Sant’Anna/CTO (-1 ASO)

MODIFICHE ALLE ASL:

-  Mauriziano entra in ASL 1 (-1 ASO)

-  ASO di Cuneo entra nella ASL di Cuneo (-1 ASO)

-  ASO di Alessandria entra in ASL di Alessandria (-1 ASO)

-  nel cuneese accorpare le ASl al di sotto dei 100.000 abitanti (es. Ceva-Mondovì -1 ASL)

-  stesso concetto per Alessandria che passa da 3 a 2 ASL (- 1 ASL)

-  accorpare Pinerolo e Ciriè (-1 ASL)

-  una ASL Verbano-Cusio-Ossola (-1 ASL)

Questa coraggiosa operazione porterebbe le ASL da 22 a 18 e le ASO da 8 a 4. Non sono scelte giustizialiste, basti pensare al Mauriziano ed al Santa Croce di Cuneo che di colpo si trovano retrocessi da potentati a parte integrante del territorio.

Molinette 2? Non serve, o meglio non serve nè alla città nè al Piemonte, serve solo ai costruttori, ai consulenti, agli amici del mattone a tutti i costi, come non serve l’ospedale a Nichelino.

La ASL 3, la 2, la 4 hanno già degli ottimi livelli di prestazione, facilmente raggiungibili dalla ASL 1 con l’integrazione del Mauriziano, basterebbe poi andare a leggere un minimo di storia della Torino operaia, quella che sputava pezzi di polmone nelle fonderie, per scoprire che il Birago di Vische si chiamava “FONDAZIONE OPERAIA BIRAGO DI VISCHE” ma si sa che in una città che trasforma la casa dove ha vissuto Gramsci in Hotel, si può anche trasformare il Birago in un agriturismo; così saranno contenti i moderati, l’opposizione, i boy-scout!

Parliamo ora di liste d’attesa; ma dove sta scritto che gli ambulatori debbano rigorosamente chiudere alle due del pomeriggio? Dove sta scritto che debbano essere rigorosamente chiusi nei festivi e prefestivi?

Dove sta scritto che dev’essere il cittadino a mettersi a disposizione del SSR con i suoi tempi e le sue liturgie?

Dove sta scritto che almeno nelle grandi aree urbane non possa esserci un centro di prenotazione unificato sulla città almeno per i festivi e pre-festivi? Perchè per una semplice analisi del sangue, magari prescritta con spirito di prevenzione, devo perdere nella migliore delle ipotesi, mezza giornata di lavoro a spese mie o della collettività?

Parliamo ora di una parola magica che piaceva tanto alle destre....e diciamo una volta fascisti dai! OUTSURCING. Ovvero ESTERNALIZZAZIONE.

Esternalizzazione significa affidare a ditte esterne tutto ciò che può essere affidato nel mondo della sanità. Vale a dire; raccolta rifiuti, lavanderie, mensa, impresa di pulizie, manutenzione, oggi servizi di supporto agli infermieri.

VANTAGGI:

L’ASL “COMPRA” con una gara al minor prezzo un servizio di quelli elencati prima. Questo comporta per prima cosa la non assunzione di lavoratrici e lavoratori, comporta il servizio svolto “vuoto per pieno”, cioè non è un problema della ASL se un dipendente della ditta appaltatrice è in malattia, noi abbiamo comprato il servizio e questo dev’essere fornito. Insomma; l’uovo di Colombo. Cosa ci sta dietro questa logica? La logica del minor prezzo scatena ditte private e certe cooperative, ad una guerra giocata sul filo del centesimo, anche perchè le gloriose istituzioni che scrivono delle gran belle parole sulla carta, si guardano bene dallo scrivere........facciamo una gara impostata sulla qualità-prezzo. E nella qualità ci potrebbero anche stare le condizioni contrattuali dei lavoratori.

SVANTAGGI:

Negli svantaggi ci mettiamo per prima cosa le condizioni di lavoro; straordinari obbligatori pagati in nero, sicurezza sul lavoro ridotta ad una burla e qualità del servizio fornita scarsa. Molti di voi saranno portati a dire: basta prendere il contratto e pretenderlo. Non è così, perchè questo significa semplicemente far ricadere sulla gente che lavora il problema, risolto magari con un licenziamento, con un disperato pronto a prenderne il posto.

GLOBALIZZAZIONE:

Chi lavora in sanità sa benissimo che la quasi totalità del materiale, dai presidi medico chirurgici, al materiale monouso (a base di carta giusto per aiutare la deforestazione) proviene da paesi asiatici, latino-americani, africani, o extra CEE. Autorevoli ditte con nomi ridondanti e di sapore teutonico, oggi come oggi detengono il marchio e producono nei paesi più poveri. Bene, sulla scia dell’OUTSURCING non una sola parola è stata spesa per dire che i bambini non devono essere parte di questo circolo vizioso, come gli adulti devono avere dei diritti. Forse la mascherina monouso ci costerà un centesimo in più.......ma noi dobbiamo fare vedere che abbiamo risparmiato.

QUINDI, I PRINCIPALI PROBLEMI SONO:

Fra i principali problemi che il settore pubblico sanitario deve affrontare e che sono critici ascriviamo:

-  la dirigenza;

-  la contrattazione nazionale e decentrata;

-  l’impatto e l’impiego del sistema tariffario non mai congruo;

-  la remunerazione delle prestazioni nel quadro di un chiaro, realistico e socialmente corretto obiettivo aziendale;

-  il sistema ancora troppo verticistico nel controllo dell’azione dei professionals;

-  l’orario di lavoro e la concentrazione delle attività nelle ore mattutine sostanzialmente su soli cinque giorni alla settimana, a causa delle carenze di organico;

-  la sproporzione fra mezzi e apparecchiature, richieste di prestazioni e personale medico e non medico disponibile ad erogarle;

-  il sistema di formazione continua e di aggiornamento troppo devoluto all’azione di privati;

-  la sorveglianza sull’appropriatezza delle prestazioni, delle prescrizioni farmaceutiche;

-  la coerenza di organi di sorveglianza collaborazione e controllo integrati al sistema di prescrizione (servizi farmaceutici territoriali);

-  il sovraccarico delle attività dei DEA sproporzionato rispetto al personale disponibile...

INOLTRE

-  E’ assente un sistema di “incentivazione” alla prevenzione;

-  è assente un meccanismo bonus/malus nei confronti di azioni con rischio sulla salute.;

-  è assente un sistema di partecipazione alla spesa equo;

-  sono assenti congrui meccanismi di compensazione economica per azioni sanitarie di “supporto”, quali il trasporto infermi, il soccorso extraospedaliero.

-  E’ soprattutto assente la percezione che, a fronte delle programmazioni sanitarie economicistiche del passato, la situazione epidemiologica e quella inerente la tipologia dei ricoveri sta, in larga misura cambiando, appesantendosi a sfavore delle fasce deboli della popolazione e dei malati cronici gravi che sono, ovviamente, i maggiori fruitori del servizio sanitario.

In questo percepito come disastroso dagli operatori sanitari, dai malati e dai loro famigliari si inseriscono le valutazioni relative alla “riorganizzazione” del settore ospedaliero.

I dati obiettivo comporterebbero di raggiungere nel 2007 un tasso di ospedalizzazione del 180%o, con un 20% di ospedalizzati in day hospital, riservando 4,5 posti letto x 1000 abitanti di cui lo 0,9% per post acuzie. Ne deriverebbe in Piemonte la necessità di ridurre di 22000 casi le ospedalizzazioni in 1 anno e di ridurre in teoria di 141 posti letto. Seguendo la descrizione del piano sanitario ne conseguirebbe che, poiché sussiste un’eccedenza di posti letto l’ammontare da ridurre è pari a 906 unità, mentre i posti letto per post acuzie dovrebbero salire di 417 unità.

E’ noto che molti ospedali e in particolare molte unità operative altrimenti dedicate all’urgenza lavorano di fatto per la post acuzie e per patologie “croniche”. Pertanto non è realistico condividere l’idea che l’eccedenza di 906 p.l. sia tutta per acuti. Stante la reale carenza di p.l. per post acuzie ( -417) una ipotesi di riduzione di posti letto per acuti sarebbe oltremodo disastrosa.

L’uso razionale delle risorse ospedaliere si rivela improbabile. Inoltre non è così automatico che la diagnosi precoce diminuisca la ospedalizzazione, mentre è certo che questo sarebbe ottenibile attraverso la prevenzione.

La modifica delle tecniche chirurgiche meno invasive, inoltre, marcia di pari passo con l’aumento della chirurgia ad alta specializzazione su malati gravi o con elevate complicanze ( trapianti, chirurgia toracica, chirurgia ortopedica...) che a loro volta non favoriscono automaticamente una diminuzione dei ricoveri ma anzi devono dirottare spesso i casi critici ad elevata frequenza di complicanze in altre unità operative di ricovero, oppure aumentano la necessità di azioni in Day Hospital e ADI, a fronte di una minore organizzazione attuale di tali strutture.

E’ opinabile che la necessità di posti letto per acuti sarà minore nei prossimi anni e comunque è indispensabile ridefinire il concetto di malato “acuto” perché da questo deriva proporzionalmente l’adeguatezza quali quantitativa delle risorse anche umane da predisporre. La riduzione della degenza tradizionale non può, inoltre, essere ottenuta senza provvedere ad un adeguato rafforzamento di risorse alternative, in caso contrario il peso dell’assistenza si scaricherebbe direttamente sulle famiglie dei malati, e questo è un processo già in atto, non condivisibile.

Una qualche alternativa potrebbe essere ottenuta rinforzando la organizzazione integrata dei servizi e dei dipartimenti ma questi devono avere obiettivi di sviluppo e azioni sufficientemente distribuite nel tempo. Le mutevoli condizioni di gestione di una azienda sanitaria che comportino riassetto dell’ASL, creazione di superdipartimenti, ridefinizione degli ambiti operativi e delle integrazioni comportano ricadute negative su un tale sistema organizzativo.

Rinforzare le attività dei distretti, le azioni della medicina primaria e della prevenzione sono una importante sfida. Non esiste una integrazione reale fra medico di base, ospedale e servizi di prevenzione.

Esiste, frammentario, un sistema di collaborazione in condizione inversa: i medici di base vengono coinvolti nella “continuità” delle cure dall’ospedale all’ADI, ma questo avviene solo per tempi minimi e senza una strategia di cura. Non esistono, altro che sperimentali o su progetti finalizzati, coinvolgimenti programmatici ( linee guida, ricorso alla diagnostica...) che integri le azioni del medico di base, dello specialista, dell’ospedale, del servizio di prevenzione, dei vari servizi “speciali”. Questi problemi sono critici dentro una ASL e lo sono maggiormente per azioni inter-ASL. Sono fuori controllo le auspicabili interazioni fra S.S. pubblico e strutture private e convenzionate. Un progetto di rivalorizzazione dei distretti non può essere funzionale al singolo distretto, quando attuato, e certo non sarà funzionale alla struttura regionale se non integrato e omogeneo sul territorio tutto.

Le cure primarie sono sufficientemente estese, sul paziente ambulatoriale, salvo sporadici casi di inappropriatezza. Ma il servizio è meno efficace nell’assicurare la terapia e la continuità terapeutica per malati più gravi, né gli operatori sanitari di base sono nelle possibilità di attrezzarsi per tali risposte. Non cvi è assolutamente integrazione fra medicina di base e servizi di prevenzione, nonostante gli sforzi reciproci, ad eccezione che per patologie tumorali o alcune socialmente sostenute da gruppi di azione, mentre resta ancora troppo fuori la lotta integrata alle malattie sessualmente trasmesse, alla TBC, all’AIDS, all’alcolismo, agli incidenti sulla strada, sul lavoro...

Manca il managing per ottenere una reale integrazione del sistema anche se le realtà sono differenti nella metropoli, rispetto alle città di provincia e a centri abitativi più piccoli. Manca però ovunque un qualche organo di programmazione e controllo che assicuri un reale contributo propositivo del cittadino e delle organizzazioni dei lavoratori della sanità. E’ assente un sistema di incentivazione alla prevenzione che coinvolga gli operatori ma soprattutto i cittadini.

P. S. Ci eravamo dati il faticoso compito di riempire molte altre pagine sui singoli aspetti del piano, di cose da dire ce ne sarebbero ancora tante, siamo stati costretti farne una sintesi. La Giunta Bresso ha deciso con una logica diversa, avulsa dal nostro modo di pensare, di essere lavoratori con un’idea partecipativa della sinistra (più il centro) al governo della sanità. Peccato aver perso un’occasione storica. Che dire ancora? Buon lavoro assessore!




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