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Medicina Democratica e i movimenti

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Marco Caldiroli
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Medicina Democratica e i movimenti

Messaggio da Marco Caldiroli » 12/01/2017, 9:27

Diversi compagni contestano che MD non avrebbe più un ruolo significativo nei movimenti e non ha elaborato (ha perso) una "politica" di rapporto e di condivisione con i movimenti. Sicuramente il numero dei soci attivi e la limitatezza della "struttura organizzativa" (e il contesto generale) non rendono agevole promuovere in modo continuativo ed esteso questi rapporti che risultano oggi "a macchia di leopardo".
La discussione interna su un rinnovato rapporto con tutto ciò che si muove nella società e che condivide i nostri contenuti basilari va portata negli organi di MD ed in particolare nella assemblea e quindi verrà affrontata alla prima occasione utile (assemblea ordinaria per il bilancio), nel frattempo lo sforzo di organizzare l'iniziativa del 20-21 è finalizzato tanto a fare il punto delle posizioni e degli obiettivi che ci caratterizzano quanto di cercare una condivisione, di idee e di percorsi, con altre realtà.
Formulo questo semplice messaggio affinché se ne discuta liberamente e in modo civile nell'ambito del nuovo strumento del forum.
La questione non è solo nostra, riporto un recente messaggio dalla mailing list "noinc" che giudico interessante anche in relazione alla novità costituita dalla forte partecipazione (e al risultato) al referendum costituzionale.


----Messaggio originale----
Da: noinc@yahoogroups.com
Data: 11-gen-2017 18.19
A: <noinc@yahoogroups.com>
Ogg: [Rete NoInc] Appello alle persone dei movimenti e delle reti per il Bene ed i Beni Comuni (sasso nello stagno sperando che si creino cerchi)




Care e cari tutti,

vi invio una riflessione ed un'appello a non tornare a dividerci sulle nostre rispettive contingenze, ma al contrario a tentare di fare tutti ed ognuno un salto di qualità per contribuire utilmente a questa fase. Mi scuso anticipatamente per la lunghezza, (ho sintetizzato il più possibile per non annoiarvi) spero di essere compresa nel ragionamento. Usciamo tutti da un lunghissimo periodo che ci ha visti impegnati nel promuovere in un anno ben due referendum, contro le trivelle e contro le riforme costituzionali, che hanno comportato mobilitazioni senza precedenti nel fare deliberare le regioni, nel raccogliere le firme per abrogare l'italicum e promuovere il No costituzionale, per promuovere i referendum sociali e la petizione sull'acqua. Infine abbiamo affrontato una lunga campagna per il NO dei territori, dei movimenti e delle reti sociali con l'obiettivo di mantenere aperti quegli spazi di democrazia e partecipazione ai processi locali che la modifica del titolo V e le altre modifiche avrebbero chiuso definitivamente, e con esse la nostra possibilità di avere alcuna rilevanza a fronte dell'accentramento dei poteri previsto da Renzi. Contestualmente in ogni territorio e per ogni vertenza sociale ed ambientale abbiamo continuato a batterci sul piano delle singole rivendicazioni.

Con la vittoria del NO abbiamo contribuito a porre l'ennesimo argine, certamente il più importante, alla deriva autoritaria necessaria a conseguire il risultato auspicato da J.P. Morgan e Co., la mercificazione del Paese. Le "forze" esterne ai vari governi che in questi anni si sono succeduti continueranno a premere per una accelerazione neo-liberista verosimilmente incarnata dal tentativo di Renzi di continuare a controllare governo e segreteria del pd per assicurarsi una sopravvivenza legata a doppio filo con le politiche liberiste, mentre avanza da un canto la destra xenofoba dell'altro un m5s permeato da una serie di ambiguità sia sul piano programmatico che su quello democratico e sullo sfondo i tentativi di aggregazione e disgregazione delle cosiddette sinistre radicali.

Eppure quello che è uscito dalle urne è un prorompente desiderio di partecipazione alla vita democratica del Paese, un rifiuto dell'irrilevanza che si voleva cucire addosso ai cittadini privandoli anche del diritto al voto, una netta ed inequivocabile scomunica delle politiche che Renzi, meglio di Berlusconi, è riuscito ad incassare a colpi di fiducia ed in forza di una maggioranza parlamentare illegittima come la legge elettorale che gliel'ha consegnata. Il Renzi bis senza Renzi verosimilmente tenterà di blindare le riforme già approvate, tenterà di rimettete mano a quella già bocciata dalla Consulta (Madia), al contempo manovrando a tutto campo per presentarsi alle prossime politiche con il partito della nazione col quale tentare nuovamente di metterci a tacere.

Oltre alla stanchezza, tutti noi portiamo addosso anche una responsabilità che è quella di avere prefigurato in questi anni attraverso le nostre pratiche partecipative e le nostre lotte un modello alternativo di concepire l'agire politico fuori dall'agone politico, radicale negli obiettivi diametralmente opposti a quelli della finanza globale. Un modello che potrebbe sintetizzarsi nell'aspirazione alla conversione ecologica dell'economia e della socialità, nella giustizia sociale ed ambientale, nel mutualismo, che ha tenuto come faro la Pace, costruito l'accoglienza, combattuto la militarizzazione dei nostri territori.

I nostri NO (tav, triv, inc, muos, ponte, ttip, guerra, privatizzazioni di servizi pubblici, scuola, sanità, cassa depositi e prestiti, svendita del territorio, dei beni pubblici e delle risorse, precarizzazione sistemica del lavoro, etc.) si accompagnano ad una "visione" complessiva, sociale ed economica, sostanziata da una capacità analitica, programmatica, propositiva e concreta come le nostre lotte, di cui le forze politiche raccolgono a fasi alterne e spesso per mero opportunismo la portata, che poi difficilmente si traduce in azione politica.

A fronte dell'impegno profuso fino ad oggi, e della fase confusa e pericolosa che si sta aprendo, credo che non ci si possa sottrarre dal fare un ragionamento comune tra noi e dal prendere parola e ruolo, senza per questo tradire ma al contrario rafforzando la nostra natura movimentista. Noi, nella meravigliosa, a volte contraddittoria e multiforme complessità, nelle nostre articolazioni tematiche e territoriali, siamo le donne e gli uomini che hanno negli ultimi anni posto le questioni politiche più rilevanti al Paese, praticando una vera e propria Resistenza civile al liberismo e al malaffare, costruendo e ricostruendo argini di democrazia partecipativa laddove venivano erosi o demoliti. Alle nostre reti, da movimenti inclusivi, hanno preso parte forze politiche, sindacali, associative, amministratori e sindaci, intellettuali, professori e costituzionalisti, che hanno condiviso con noi percorsi ed obiettivi. Questa trasversalità, aldilà delle singole appartenenze, ha favorito la capacità di costruire relazioni di reciprocità e crescita collettiva delle nostre comunità. Rientrare oggi nei nostri ambiti, nelle singole lotte, sarebbe ancora una volta lasciare alla politica politicante quello spazio spesso costruito da noi più che da altri che verrebbe come sempre frazionato dalle pulsioni identitarie e incapaci a mio vedere di rispondere all’emergenza sociale ed ambientale di cui siamo ostaggio con l’acuirsi dei conflitti artatamente posti in essere per farci rinunciare alle libertà in cambio della sicurezza e smarrendo definitivamente ogni barlume di umanità. In questi giorni molte sono le realtà che si attivano e si convocano mosse dall’urgenza di trovare risposte politiche alternative al quadro esistente. Sicuramente positiva la spinta a non sciogliere i comitati per il No per lavorare all’attuazione della Costituzione, ma i veri temi che andrebbero affrontati per avviare un cambiamento reale sono quelli legati alla formulazione di un programma politico chiaro e non compromesso con i sistemi di potere ed un cambio radicale della modalità di concepire l’agire politico.

Una sfida che mette alla prova per primi noi stessi nell'essere ed appartenere solo a quello per cui lottiamo, con la capacità di comprendere una buona volta che il potere, o i poteri che combattiamo non possono essere sostituiti da altri poteri più "buoni" o meno disumani. Affrontando quindi in linea teorica e pragmatica una vera e sincera destrutturazione del concetto stesso di potere che deve dissolversi, per mutare in servizio al bene ed ai beni comuni, alle comunità ed al nostro pianeta. Una destrutturazione che passa, per essere tale, dalla discontinuità con ogni potere costituito; che riconosca nel conflitto d’interesse che ogni governo ha finora incarnato il vulnus all’interesse collettivo, che sappia finalmente riconoscere ed espungere ogni contiguità con gli affari leciti ed illeciti e con la corruzione di una classe politica che ha celato e continua a celare, senza riuscirvi, i suoi rapporti di interdipendenza con i poteri economici e le criminalità organizzate, ammantando la nostra storia di segreti di uno Stato che non è il nostro.

Mi piacerebbe che fossimo in grado collettivamente di imprimere un cambiamento concreto al dibattito politico assumendoci la responsabilità di sollecitare tutti, a partire da noi stessi, a non dividerci per discutere in mille contesti diversi dei possibili, nascenti o nascituri nuovi soggetti politici che dovrebbero rappresentarci e rappresentare le nostre istanze per opporsi alla prevedibile bordata liberista che ci attende, né a snobbare la discussione lasciandola ai “professionisti” della politica per poi osservare come sempre come di "soggetto" in "soggetto" nulla cambia. Al contrario Noi, l'organismo collettivo, reticolare e multiforme che sa sognare ed immaginare un futuro a misura delle persone e non della finanza, questo futuro dovremmo pretendete di cominciare a scriverlo nero su bianco da subito. Per concepire, sollecitare e promuovere un grande cantiere programmatico, aperto ed inclusivo, senza padrini né padroni al quale tutti possano contribuire, in cui tutte le nostre elaborazioni, ideali ed aspirazioni trovino spazio, nel quale tutte le innumerevoli e straordinarie competenze rivolte al bene comune al nostro interno ed esterne a noi si facciano progetto concreto e non soggetto. Per lavorare tutti su un piede di parità ad un programma politico per la rivoluzione etica, culturale, sociale, ambientale ed economica indispensabile alla nostra stessa sopravvivenza ed a quella delle generazioni future, guardando ad una prospettiva di salubrità e benessere del Paese nel contesto europeo e globale, anziché al suo inesorabile progressivo degrado. Per sperimentare in via processuale una innovata modalità per dare riconoscimento e sostanza alla democrazia partecipativa che dovrebbe affiancare per esserne espressione quella rappresentativa prevista dalla nostra Costituzione.

Non abbiamo difeso la Carta perché convinti che essa sia immutabile, ma per poterne domani rafforzare ed attuare quei principi di uguaglianza, libertà e salvaguardia dei diritti universali che si volevano cancellare. Il momento per porre con forza tutti i nostri punti programmatici è ora. Nelle nostre città, nelle nostre regioni, nel Paese. Vogliamo provarci? Sarei felice se a questo invito rispondeste numerosi e ne volessimo ragionare tutti insieme.

In attesa di vostre abbracci circolari

antonella leto del forum siciliano dei movimenti per l'Acqua ed i Beni Comuni

Marco Caldiroli
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Re: Medicina Democratica e i movimenti

Messaggio da Marco Caldiroli » 14/01/2017, 10:47

Riporto un interessante articolo di Luciana Castellina apparso subito dopo l'esito del referendum costituzionale.

Il governo conta, ma dobbiamo ricominciare dall’opposizione

Evviva. Le vittorie, da un bel pezzo così rare, fanno bene alla salute. E poi questa sulla Costituzione non è stata una vittoria qualsiasi, come sappiamo, nonostante le contraddittorie motivazioni che hanno contribuito a far vincere il No.

La cosa più bella a me è comunque sembrata la lunghissima campagna referendaria.

Contrariamente a quanto è stato detto – «uno spettacolo indecente», «una rissa», ecc. – quel che è accaduto contro ogni attesa è stato un rinnovato tuffo nella politica di milioni di persone che non discutevano più assieme da decenni. Come se si fosse riscoperta, assieme alla Costituzione, anche la bellezza della partecipazione.

In questo senso mi pare si possa ben dire che contro il tentativo di ridurre la politica alla delega ad un esecutivo che al massimo risponde solo ogni cinque anni di quello che fa si sia riaffermata l’importanza dell’art.3, quello in cui si riconosce il diritto collettivo a contribuire alle scelte del paese. Pur non formalmente toccato dalla riforma Boschi, è evidente che la cancellazione della sua sostanza era sottesa a tutte le modifiche proposte. Evviva di nuovo.

Per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.

Non vorrei tuttavia turbare i nostri sogni nel sonno del dovuto riposo dopo questa cavalcata estenuante e però credo dobbiamo essere consapevoli che per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.

Quella che abbiamo combattuto non è stata infatti solo una battaglia per difendere la nostra bella democrazia da una deplorevole invenzione di Matteo Renzi: abbiamo dovuto impedire che venisse suggellata un’ulteriore tappa di quel processo di svuotamento della sovranità popolare, che procede, non solo in Italia, ormai da decenni. E che il nostro No non basterà di per sè, purtroppo, ad arrestare.

Viene da lontano, si potrebbe dire dal 1973, quando all’inizio reale della lunga crisi che ancor oggi viviamo, Stati Uniti, Giappone e Europa,su sollecitazione di Kissinger e Rockfeller, riuniti a Tokio, decretarono in un famoso manifesto che con gli anni ribelli si era sviluppata troppa democrazia e che il sistema non poteva permettersela. Le cose del mondo erano diventate troppo complicate per lasciarle ai parlamenti, ossia alla politica, dunque ai cittadini.

E’ da allora che si cominciò parlare di governance (che è quella dei Consigli d’amministrazione prevista per banche e per ditte) e ad affidare via via sempre di più le decisioni che contano a poteri estranei a quelli dei nostro ordinamenti democratici, cui sono state lasciate solo minori competenze di applicazione.

Abbiamo protestato contro molte privatizzazioni, poco contro quella principale: quella del potere legislativo.

Qualche settimana fa Bayer ha comprato Monsanto: un accordo commerciale, di diritto privato. Che avrà però assai maggiori conseguenze sulle nostre vite di quante non ne avranno molte decisioni dei parlamenti.

Ci siamo illusi che la globalizzazione producesse solo una catastrofica politica economica – il liberismo, l’austerity – e invece ha stravolto il nostro stesso ordinamento democratico. Mettendo in campo per via estralegale quello che dal Banking Blog è stato definito l’acefalo aereo senza pilota del capitale finanziario, impermeabile alla politica.

Per svuotare il potere dei parlamenti, un po’ ovunque, ma in Italia con maggiore vigore, sono stati delegittimati, anzi smontati, quegli strumenti senza i quali quei parlamenti non avrebbero comunque più potuto rispondere ai cittadini: i partiti politici, addirittura ridicolizzati e resi “leggeri”, cioè inconsistenti e incapaci di costituire l’indispensabile canale di comunicazione fra cittadini e istituzioni.

Si sono via via annullate le principali forme di partecipazione, o, quando non è stato possibile, sono stati recisi i legami che queste tradizionalmente avevano con una rappresentanza parlamentare.

Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione

Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione, i soggetti sociali – ma anche politici – in grado di non renderla pura protesta o mera invocazione a ciò che potrebbe fare solo un governo.

Dobbiamo cioè uscire dall’ossessione governista che sembra aver preso tutta la sinistra, e cominciare a ricostruire l’alternativa dall’opposizione.

La democrazia è conflitto (accompagnato da un progetto), perchè solo questo impedisce la pietrificazione delle caste e dei poteri costituiti. Se non trova spazi e canali, diventa solo protesta confusa, manipolabile da chiunque.

Tocca a noi aprire quei canali, costruire le casematte necessarie a creare rapporti di forza più favorevoli; e poi, sì, cercare le mediazioni (che non sono di per sé inciuci) per raggiungere i compromessi possibili (rifiutando quelli cattivi e lavorando per quelli positivi).

Del resto, non è stato forse proprio per via delle lotte e dell’esistenza di robusti canali e presenze parlamentari che fino agli anni ’70 siamo riusciti ad ottenere quasi tutto quanto di buono oggi cerchiano di difendere coi denti, dall’opposizione e non perchè avevamo un ministricolo in qualche governo?

Dobbiamo fare subito, laddove siamo.

Non voglio dire che un governo non sia importante, vorrei solo superassimo l’ossessione che si incarna negli slogan elettorali: «Se andremo al governo, faremo…». Dobbiamo fare subito, laddove siamo.

Nella mia penultima iniziativa referendaria, a Gioiosa Jonica (in piazza come non si faceva da tempo) una splendida cantante locale è arrivata a concludere: con la canzone che ben conosciamo “Libertà è partecipazione”.

Propongo divenga l’inno della nostra area No. (E speriamo anche che quest’area preservi l’unità di questi mesi).

Marco Caldiroli
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Re: Medicina Democratica e i movimenti

Messaggio da Marco Caldiroli » 28/03/2017, 19:12

Segnalo e riporto l'intervento di Marco Revelli su Il Manifesto del 23.03.2017 "Il coraggio della sinistra nello smarrimento quotidiano" e mi permetto di evidenziare l'ultima frase.

Aldo Bonomi mi propone di rimettere in gioco il mio Non ti riconosco, dichiarazione di smarrimento espressa in forma affermativa. E di virarla, per così dire, in forma interrogativa: come provare a conoscere il nostro tempo, fattosi appunto irriconoscibile?

Ricostruisce anche, in quel suo articolo, il nostro “camminare domandando” fuori dalle mura sicure del fordismo verso i territori magmatici del post-fordismo. E racconta la fatica di Sisifo di seguire il movimento altalenante della scomposizione e della ricomposizione di quasi tutto, soggetti storici, equilibri territoriali, comparti produttivi e riproduttivi, forme della rappresentanza e della rappresentazione… Con in testa la consapevolezza (l’idea, l’utopia?) che lasciate alle spalle le fabbriche in rovina – gli antichi punti focali di un conflitto fondativo e in fondo costituente – si trattasse, per chi non volesse arrendersi, di “fare società”. Parla, infine, di “sociologia delle macerie”, per dare un nome, sintetico, al nostro “lavoro intellettuale”.

METTE IN FILA TUTTO questo, Aldo, e ogni passaggio non è solo un pezzo di un’autobiografia collettiva rivisitato. E’ anche una sfida al nostro dispositivo conoscitivo: un colpo di piccone, un tassello dopo l’altro, a un “paradigma” che forse non richiede solo di essere aggiornato, ma sostituito perché, appunto, “falsificato” (ossia, rivelato fallace alla prova dello sguardo).

Prendiamo la questione della scomposizione e della ricomposizione.

Forse quel ciclo non è affatto “eterno”. Forse alla scomposizione non segue più una ri-composizione, ma solo la decomposizione. Forse la distruzione creatrice di schumpeteriana memoria, creatrice non è più. Si limita a distruggere e basta. L’Italia, dobbiamo ben dircelo, ha mancato il passaggio dall’età industriale a quella successiva. Non ha più un vero apparato industriale (ce l’ha spiegato Gallino più di dieci anni fa), non ha ancora (e non avrà mai) una vera economia dei servizi, se non a microscopiche macchie di leopardo.

Quello che osserviamo scrutando “il sociale” sono appunto macerie. Ma il resto dell’Occidente, pur mascherandole meglio, non è un esempio di salute. L’Europa sta su nelle sue aree centrali ridistribuendo alla rovescia le risorse – dal basso verso l’alto, dalle periferie ai centri – ma non ne crea di nuove, portatrici di futuro… E negli Usa, l’abbiamo visto quale sia il peso delle macerie delle infinite heartlands rispetto alle sottili fasce a scorrimento veloce delle aree costiere, in occasione dell’elezione di Trump… Per questo concludevo l’introduzione del mio libro citando Libeskind secondo cui essere consapevoli di essere parte di una fine è già un inizio…

OPPURE PRENDIAMO il progetto sintetizzato nella formula “fare società”. Doveva segnare l’avvento della figura del “Volontario” come nuovo produttore di buone pratiche e di alternative all’esistente, in sostituzione dell’obsoleto “Militante” ottocentesco. Favorire forme ardite di Communitas virtuosa nel quadro di un umanesimo rigenerato.

Non è andata così. All’inverso.

Non voglio fare di ogni erba un fascio. Men che meno insistere sulle piaghe più evidenti di quel “mondo”: le “Misericordie” impiegate come polizia interna prima nei Cie e poi negli Hotspot, guardiani di un’umanità dolente e vessata, testimoni reticenti e a volte complici delle vessazioni; le cooperative sociali costituite a copertura di attività criminali dei nuovi schiavisti, a far mercato dei corpi migranti… Non voglio parlare di questi casi di aperto tradimento della mission del Volontariato.

Voglio parlare dei suoi settori “sani”, che lavorano non solo nella legalità ma per la legalità e la solidarietà, ridotti tuttavia a sbiadite controfigure. Tritati nel meccanismo del mercato, spesso sviliti nella logica degli appalti che li costringe alla concorrenza reciproca, al mors tua vita mea, alle scelte al ribasso pur di aggiudicarsi i servizi che in un paese civile spetterebbero all’ente pubblico. E comunque costretti all’irrilevanza nel campo delle decisioni che contano. Oggetti e ornamenti delle retoriche politiche.

IN QUESTO CONTESTO, la nostra “sociologia delle macerie” non può che disvelare ciò che trova: macerie, appunto. Senza un punto archimedico su cui poggiare, la sociologia non può che rimanere meramente – inerzialmente – descrittiva. E quel punto archimedico non può che essere, per una sociologia che voglia essere anche performativa – che non rinunci cioè a essere, per dirla ancora con Gallino, pensiero critico -, il “conflitto”. L’apertura di linee di frattura mobilitanti. Forme della resistenza e del rifiuto d’obbedienza ai dispositivi della sottomissione e dell’espropriazione.

O meglio, la domanda (le domande) sul conflitto (sui conflitti): sul come, il dove, il chi e soprattutto il perché di esso (anzi di essi, al plurale). Perché, nonostante la moltiplicazione del disagio e del degrado sociale, questa assenza di protesta stabile e dispiegata, che non sia la forma delegante e sfregiata del voto cosiddetto “populista”? L’unico che sembra – sembra, appunto! – far paura ai nuovi padroni del vapore transnazionale o ai loro (provvisori) ceti politici.

E poi, dove puntare lo sguardo per tentare almeno d’intravvedere l’embrione di una linea di faglia che si allarga? Un tempo si disse “ai cancelli!”, perché era lì, sulle catene di montaggio, che il lavoro vivo resisteva al comando incorporato nella “tecnologia di concatenamento” che l’incatenava. Poi si disse “fuori!”, negli spazi prima periferici della fabbrica diffusa dove il produrre s’impastava col territorio e le sue reti di prossimità.

MA OGGI? DOVE CI SI BATTE per contendere brandelli di autonomia, individuale o di gruppo, al comando altrui (perché, continuo testardamente a pensarlo, è questa, dell’autonomia, la radice creatrice in ogni autentico conflitto sociale).

Chi lo fa? Gli ambulanti nei mercati rionale condannati all’estinzione dalla “direttiva Bolkenstein”? I taxisti in rivolta contro il grande fratello incistato nell’App di Uber? O i futuri schiavi del dispotismo di quello stesso algoritmo, destinatari delle contumelie dei taxisti? O i nuovi agricoltori impegnati nella difesa delle qualità organolettiche dei propri prodotti contro la standardizzazione uniformante e immiserente dell’agricoltura chimica? O i residenti-resistenti portatori di una coscienza di luogo nel tempo del predominio sradicante dei flussi (penso naturalmente ai valsusini, ma non solo)? O i pochi restanti e i sempre più numerosi ritornanti alle terre dell’abbandono…

Lo so, nessuno di questi ha la “bella centralità” del conflitto di un tempo. Tutti soffrono di una qualche ambiguità. Ma per chi come noi ha fatto dell’interrogazione sul sociale il proprio mestiere è lì che si deve guardare.

E’ quello il nostro “orto di Candide”, sapendo che rinchiudersi nel proprio orto non va bene, ma restare senza orto vorrebbe dire consegnarsi al mercato.

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