IL LATO OSCURO DEI MORTI SUL LAVORO

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Il testo che segue è stato pubblicato su Il Manifesto del 14.08.2021

Ogni infortunio sul lavoro è un dramma umano, familiare e una conferma di inadeguatezza delle misure di protezione previste o adottate, per altri è una pratica assicurativa da elaborare e da definire: il ruolo dell’INAIL come elemento dello stato sociale in Italia è ben riassunta nel recente testo di Chiara Giorgi e Ilaria Pavan, Storia dello Stato Sociale in Italia, Il Mulino. Vi sono vicende però in cui il dramma non viene nemmeno considerato perché il fatto non sussiste o non risulta degno di approfondimenti. Sono gli infortuni non presi in carico dalla giustizia, molti volutamente nascosti e non denunciati, altri cancellati dal sistema. Questa è la storia della morte in fabbrica per cause lavorative del Sig. E.G.R. non riconosciuta dai servizi di prevenzione e dall’autorità giudiziaria, ma da INAIL sì.

Un giorno di gennaio 2018 il Sig. E.G.R., che lavora presso l’azienda da quasi vent’anni, viene trovato all’interno della sezione finale di un impianto di trattamento di pelli in provincia di Vicenza. Si trova sotto un sistema di accatastamento dei manufatti, ha una grave compressione del torace tra elementi mobili della macchina di cui uno, un rullo, è uscito dalla sede. Morirà quattro giorni dopo in Ospedale.

I primi accertamenti sono approssimativi il caso è archiviato: non viene preso contatto con il PM, si riportano testimonianze non verbalizzate di un altro operatore che non ha visto nulla, non si chiede copia né si esamina il manuale di istruzioni del macchinario che non viene sequestrato e si lascia quindi che venga manomesso – in pratica messo a norma poche ore dopo dalla ditta produttrice. I tecnici del locale Servizio prevenzione (SPISAL) svolgono un pessimo lavoro e avallano la tesi del malore mentre il datore di lavoro ipotizza una dinamica compatibile con un infortunio, nel corso del procedimento si verifica che l’infortunato non soffriva di alcuna particolare patologia.

Gli approfondimenti vengono svolti dopo oltre tre mesi dai Carabinieri su richiesta del PM con rilievi fotografici e la raccolta di testimonianze, ma i militi ammettono di non essere in grado di arrivare a conclusioni non avendo competenza in materia.

Ciononostante, o proprio per l’incapacità degli inquirenti di svolgere una indagine completa, il caso viene archiviato a luglio 2019 dal GIP basandosi sulla relazione iniziale dello SPISAL e su una perizia medico-legale che escludeva la presenza di traumi da contatto ipotizzando il decesso per cause naturali. Nel procedimento tale ipotesi è contestata dal consulente della famiglia, ma secondo il GIP risulterebbe comunque ininfluente in quanto se anche la causa fosse stata un infortunio sarebbe stata colpa del lavoratore infilatosi nella macchina – condizione che evidenzia soltanto l’assenza di protezioni idonee per evitare gli effetti di un uso scorretto ma prevedibile, rischio da prevenire da parte dei produttori come prescrive la direttiva macchine. Il GIP va controcorrente rispetto alla giurisprudenza della Cassazione in tema di sicurezza sul lavoro, esprimendo un approccio regressivo proprio delle associazioni imprenditoriali: se un lavoratore si infortuna è perché ha sbagliato lui, scambiando così l’elemento soggettivo, quasi sempre presente negli infortuni e che costituisce il fattore immediatamente precedente l’evento, con quello determinante, costituito dal fatto che a monte devono esserci macchine e attrezzature conformi, idonea organizzazione del lavoro, dispositivi di protezione collettivi/individuali, formazione e informazione dei lavori.

In questo caso, poco manca che si parli di malore attivo: il Sig. E.G.R. si sente male e cade sotto la macchina con una giravolta quasi acrobatica danneggiando un cilindro che esce dalla sua sede. La configurazione della parte di macchina interessata solleva molteplici dubbi che meritano un approfondimento nelle sedi competenti al fine di poter accertare la responsabilità del datore di lavoro, ma questo viene negato al Sig. E.G.R. due volte: quando si archivia il caso senza alcuna seria valutazione e quando lo si archivia la seconda volta dopo la richiesta motivata di riaprire le indagini a fronte dell’evidenza delle carenze della prima istruttoria.

Come Associazione abbiamo sostenuto la famiglia chiedendo, invano, la riapertura del procedimento penale. La stiamo ancora sostenendo in ambito civile. La vicenda ci ricorda che, se si concorda con la necessità di incrementare gli operatori (tecnici della prevenzione) sia a livello centrale (Ispettorato Nazionale del Lavoro) sia a livello regionale (ASL/SPISAL), non ci si deve fermare alla quantità, ma garantire anche la qualità professionale e l’etica degli operatori. La professionalità si può ottenere con non meno di tre anni di affiancamento con un tecnico senior; per l’eticità occorrerebbe, come già segnalato su queste pagine, che le rappresentanze dei lavoratori pretendano come prima e dopo l’entrata in vigore della riforma sanitaria del 1978 di avere voce in capitolo nella programmazione e nell’approccio dei servizi di vigilanza USL/ASL in primo luogo. In caso contrario, avremo, al meglio, più vigilanza e rispetto delle norme, ma non un cambio di passo concreto, quotidiano, per la salute innanzitutto nei luoghi di lavoro.

Marco Caldiroli – Presidente Medicina Democratica – Tecnico della Prevenzione

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