IL “COMMA 22” CONTENUTO NEL DPCM “COVID” 13 OTTOBRE 2020

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Molti conosceranno il “comma 22” esempio di indicazione regolamentare/normativa senza capo né coda, ed esemplificato nella frase che segue:
«Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.»

Non esiste un regolamento ove sia stato effettivamente inserito ma una “logica” del genere spesso si intrufola in disposizioni con l’effetto di renderle difficilmente o per nulla intellegibili ed è il paradigma di sistemi al collasso burocratico e alla palese negazione della
Qualcosa del genere è avvenuto nel DPCM del 13.10.2020 sugli ultimi provvedimenti emergenziali anticovid ed in particolare sulla discussa previsione di “dispositivi di protezione delle vie respiratorie” (non necessariamente “mascherine” ndr) all’aperto e nei luoghi chiusi “diversi dalle abitazioni” (art. 1 comma 1 del DPCM).
Prendiamo questo secondo caso che sembra introdurre un obbligo totale di indossare un dispositivo di protezione “naso-bocca” per tutto il periodo lavorativo se il luogo è chiuso (eccezion fatta nei casi in cui si possa garantire “in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi”, neppure questa previsione è sempre di immediata e chiara percezione : se sono solo in un ufficio, sono isolato, ma se siamo in due e il mio “compagno” d’ufficio è a cinque metri di distanza siamo vicendevolmente isolati, lo stesso vale nelle tante possibili varianti nei reparti produttivi).
Tanto più che lo stesso articolo (al comma 2) ci ricorda che dobbiamo tenere una distanza di sicurezza interpersonale “di almeno un metro” e – per logica – l’isolamento in questo contesto va interpretato come un “distanziamento maggiorato” (ma di quanto, quando non siamo soli in un determinato locale, non si sa).

A questo obbligo apparentemente tassativo e “universale” per i luoghi di lavoro chiusi viene però aggiunto l’inciso (sempre nell’art. 1 comma 1 del DPCM) “con salvezza dei protocolli e delle linee guida anticontagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali …..”.
Quindi, per logica, e per quanto qui interessa il protocollo tra le parti sociali del 14.03.2020 integrato il 24.04.2020 e riguardanti le modalità di tutela dei lavoratori nei luoghi di lavoro dai rischi di contagio “predomina” sull’obbligo di “protezione naso-bocca” in tutti i luoghi chiusi.
Questo in virtù del principio di “specialità” vigente nel “corpus giuridico” italiano, se una norma è specifica per il caso in esame, la stessa predomina rispetto ad una norma generale applicabile al caso.

Fosse così semplice, il problema non si porrebbe.
Ma il legislatore, nell’art. 2 del DPCM ha inserito una norma da “comma 22”.

L’articolo 2 del DPCM richiama “tutte le attività produttive industriali e commerciali” al rispetto dei “contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24.04.2020 tra il Governo e le parti sociali ….”.
Tutto chiaro, il “protocollo condiviso” nei luoghi di lavoro predomina su un apparente obbligo generalizzato di tenere sempre un dispositivo di protezione in un ambiente chiuso (luoghi di lavoro inclusi).

Sarebbe così se questo articolo non contenesse, a sua volta, un inciso che dispone “fatto salvo quanto previsto dall’art. 1” ovvero, appunto, fatto salvo l’obbligo “generale” di tenersi addosso un dispositivo di protezione in tutti i luoghi chiusi.

Quindi la previsione dell’art. 1 fa salva una previsione contenuta nell’art. 2 la previsione dell’art. 2 fa salva una previsione dell’art. 1 .
Un “cane che si morde la coda” o un “comma 22” che afferma e nega nello stesso tempo.

Detto questo, secondo chi scrive, quello che vale nei luoghi di lavoro è quanto prescritto dalla normativa (e dalla prassi, come nel caso di specie il DPCM del 26.04.2020 che ha “promosso” a norma i protocolli tra le parti sociali) e quindi quello che vale è la corretta attuazione dei protocolli tra le parti sociali che si basano non sull’utilizzo indiscriminato e continuativo di mascherine-dispositivi medici o di semimaschere respiratorie-FFP2 nei luoghi di lavoro ma l’obbligo di utilizzo ogni volta che, per la propria mansione (al chiuso come all’aperto), occorre svolgere una attività con un altro lavoratore/lavoratrice a meno di 1 metro di distanza (in assenza di altri sistemi di protezione).

In altri termini, prima di “mascherinare” i lavoratori il datore di lavoro deve rivedere i luoghi di lavoro e l’organizzazione del lavoro per ridurre al minimo la necessità di operare a breve distanza, solo per il “rischio residuo” dovrà fornire dispositivi di protezione delle vie respiratorie idonee a proteggere i lavoratori/lavoratrici.

A quest’ultimo proposito vale il principio (ribadito anche dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri) che le “mascherine di comunità” ricordate anche nell’art. 1 comma 4 del DPCM del 13.10.2020 (non certificate, non CE, non derogate con espliciti provvedimenti da INAIL/ISS) non sono idonee per proteggere i lavoratori/lavoratrici nei luoghi di lavoro e quindi NON devono essere né fornite né utilizzate da questi ultimi. Questa sì una mancata attuazione dei protocolli e quindi anche delle norme in materia di sicurezza sul lavoro.

informativa Consiglio dei Ministri

a cura di Marco Caldiroli

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