IO NON CI STO : LA PREVENZIONE NEI LUOGHI DI LAVORO AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

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LA PREVENZIONE NEI LUOGHI DI LAVORO AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
Il 17 marzo INAIL ha emesso una nota circolare inail coronavirus ove precisa che i dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche e private che risultano positivi al virus sono sotto la “tutela INAIL” in particolare se ciò determina la “quarantena”. Viene infatti riconosciuto che “il contagio … si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni”. Il COVID-19 è un rischio riconosciuto come malattia professionale o infortunio. Gli operatori sanitari che sono deceduti o che hanno avuto danni a seguito di contagio lo sono per causa lavorativa e il datore di lavoro è tenuto alla denuncia di infortunio. Non era scontato, anche se è palese che l’ambito sanitario espone gli operatori a rischi biologici (il “coronaviridae” è un agente biologico di categoria 2 – su una scala di 4 – già dal dlgs 626/94). Inadeguatezze organizzative e/o assenza/inidoneità di dispositivi di protezione individuali (DPI) nelle strutture sanitare configurano diverse ipotesi di violazioni alle norme di sicurezza sul lavoro. Finita l’attuale fase emergenziale si dovrà cambiare nettamente registro ovvero si rispettino le norme “sul serio” e non solo formalmente.
Infatti la crisi pandemica ha fatto emergere anche un’altra debolezza: quasi tutte le imprese si sono trovate “spiazzate” dalla necessità di dotarsi di elementari DPI : le “mascherine”. Senza entrare nel merito sulle diverse tipologie ed efficacia quello che sorprende è la loro assenza in troppe realtà. E‘ pacifico che vanno privilegiati i sistemi di protezione collettiva e tutto quanto fa prevenzione, i DPI sono utili esclusivamente per i rischi residui non proteggibili altrimenti. Ma questi rischi, anche in forme limitate e/o saltuarie, sono presenti in quasi tutte le aziende con attività industriali e artigianali. La loro assenza/carenza denota la mancata attuazione di alcuni obblighi di base delle norme di sicurezza. Inoltre da conto di quanto poco sia stata efficace l’azione dei lavoratori e delle loro rappresentanze sulla attuazione dei loro diritti. Sono circolati volantini e appelli sindacali intitolati “prima di tutto la salute” per richiedere interventi di tutela e/o per fermare le produzioni non essenziali. Anche prima della pandemia, nei luoghi di lavoro, questo principio doveva valere ed essere preteso a gran voce ! Per esempio, la richiesta della modifica dei cicli produttivi eliminando le sostanze cancerogene dovrebbe essere in cima alle priorità invece è di pochi mesi fa una campagna dei sindacati europei per fissare dei limiti di esposizione a cancerogeni, anziché sulle modalità di “fuoriuscita” da tali produzioni/impieghi. La strage dovuta alla esposizione all’amianto non è stata una lezione sufficiente.
Una lezione meno prevedibile, è quella dell’esposizione a un agente biologico in situazioni ove non sono prodotti né sono utilizzati. E’ pacifico che in una azienda metalmeccanica non si utilizzano batteri o virus che invece possono essere utilizzati in aziende biotecnologiche, farmaceutiche ed essere presenti negli ospedali: non ci si aspetta che l’attività determini questa esposizione. A dire il vero, rimanendo alle metalmeccaniche, qualche rischio di questo genere esiste, ad esempio il mancato rinnovo di fluidi lubrorefrigeranti può farli diventare “brodo di coltura” di batteri ed esporre i lavoratori tramite le nebbie oleose (se non captate idoneamente). Queste situazioni devono essere considerate nei “documenti di valutazione di rischio” e sono agevolmente riducibili. Meno “naturale” è considerare il rischio biologico “esterno”. Questo rischio trova posto nei piani di emergenza (che devono avere tutte le attività). Oltre ad eventi connessi all’attività (infortuni, incendi, sversamenti di sostanze pericolose ecc) vanno infatti anche considerati quelli “esterni” (alluvioni, terremoti, esplosioni dovute alla azienda vicina ecc). Tra questi ultimi dovrà essere previsto, da ora in poi, anche il rischio pandemico per non farsi cogliere impreparati come oggi. E l’aumento dei controlli tanto invocato ad ogni infortunio mortale dove è finito ? Dove sono finiti i tecnici della prevenzione : in smart working “forzato” o nei call center.
E’ quello che succede in Lombardia e in Piemonte, ove è garantito solo l’intervento in caso di infortuni gravi. Chi obietta è preso per mentecatto e untore con tendenze suicide. In Veneto, almeno, è previsto l’utilizzo degli operatori per controlli a campione nelle aziende attive : i lavoratori costretti ad operare nelle condizioni attuali hanno bisogno di più vigilanza e non meno. Il tutto nel rispetto della sicurezza dei tecnici ed elaborando specifici protocolli di intervento utili anche alle aziende. E’ essere facili profeti affermare che le scelte di allontanamento coatto dei tecnici dall’intervento nelle aziende rinvigorirà le iniziative già in essere per lo smantellamento dei servizi di vigilanza in favore di controlli solo formali. Visto che, nel momento di maggior bisogno, i servizi di controllo sono latitanti allora non sono così indispensabili nella “normalità”. Ma abbiamo imparato che era la “normalità” il problema e occorre una sanità pubblica partecipata per superare l’attuale situazione, la si otterrà solo unendo nuovamente le forze anche per l’affermazione piena del diritto alla salute nei luoghi di lavoro.

Marco Caldiroli – Presidente Medicina Democratica – Tecnico della Prevenzione

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