SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.182 DEL 29/10/14

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.182 DEL 29/10/14

INDICE

  • Lavori su impianti elettrici e abilitazioni professionali richieste
  • “ILVA da fuori”: dove eravamo rimasti?
  • Interpello: le visite esterne per l’idoneità psicofisica sono retribuite
  • Datore di lavoro: gli obblighi per la gestione delle emergenze
  • Esposizione a polveri di legno: gli effetti sulla salute dei lavoratori
  • Rischio più elevato di tumore al polmone per i muratori
  • Delega di funzioni: requisiti di validità dell’istituto della subdelega

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

Marco Spezia

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!

sp-mail@libero.it

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LAVORI SU IMPIANTI ELETTRICI E ABILITAZIONI PROFESSIONALI RICHIESTE

LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.55

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti del lavoratori.

Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.

Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.

Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.

Marco Spezia

QUESITO

Buongiorno Marco,

desidero un chiarimento, su una riunione che ha fatto il direttore con i dipendenti di un reparto.

E’ stato comunicato che gli operai del turno di notte devono imparare a sostituire i sensori di fine corsa delle macchine, perché l’elettricista non può essere sempre chiamato.

Essendo un lavoro che  implica il contatto con apparati elettrici anche se di varie tensioni (da 24 V a 110 V), ho dei dubbi che gli operai possano eseguire tale operazione, a meno che non siano formati sul rischio elettrico.

Che cosa dice la normativa a tale proposito?

Grazie e saluti.

RISPOSTA

Da un punto legislativo il problema che tu poni è ben analizzato dal D.Lgs.81/08 (Decreto) che considera in quali condizioni e da parte di chi possano essere eseguiti lavorazioni su impianti elettrici.

Il tema è poi trattato da specifiche norme del CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano). In questo caso la norma tecnica di riferimento (secondo l’articolo 2, comma 1, lettera u) del Decreto) è la norma CEI 11-27 “Lavori in prossimità di impianti elettrici e lavori elettrici sotto tensione in bassa tensione e fuori tensione in alta tensione e in bassa tensione in conformità al Testo Unico sulla Sicurezza” IV edizione del febbraio 2014 (Norma).

Prima di entrare nel dettaglio, ti rispondo subito che, secondo tali normative, gli interventi su impianti elettrici nel campo di tensioni che mi indichi (sicuramente a 110 V, ma forse anche a 24 V) possono essere eseguiti esclusivamente da personale adeguatamente abilitato, a seguito di specifica formazione, oppure da personale non abilitato, ma solo sotto la diretta supervisione o vigilanza di personale abilitato.

Nel seguito ti do la motivazione (molto tecnica e quindi abbastanza complessa) di quanto affermato.

LAVORI SU IMPIANTI ELETTRICI E ABILITAZIONI PROFESSIONALI RICHIESTE

POSSIBILI SCENARI DI LAVORO

Innanzitutto occorre distinguere subito tra i vari possibili scenari di lavoro su impianti elettrici, in quanto le disposizioni legislative e regolamentari variano in funzione di tali scenari.

La Norma opera una prima distinzione tra tipologia di lavoro eseguita su impianti elettrici, distinguendo tra “lavoro elettrico” e “lavoro non elettrico”.

Tale distinzione è definita in funzione della distanza a cui viene eseguito il lavoro rispetto alle parti attive dell’impianto elettrico. Tale distanza è poi definita in funzione della tensione di alimentazione. Nel seguito verrà considerata una tensione di alimentazione inferiore ai 1.000 V in corrente alternata, ma maggiore di 25 V in corrente alternata.

Per tensioni inferiori ai 25 V in corrente alternata (cosiddetti circuiti ELV “extra-low voltage”) occorre considerare la tipologia di circuito elettrico. Non necessariamente un impianto elettrico a bassissima tensione è però un impianto intrinsecamente sicuro.

Per la Norma “lavoro elettrico” è quello che viene eseguito a una distanza inferiore a 30 cm dalle parti attive in tensione dell’impianto elettrico.

Le “parti attive” di un impianto elettrico sono le parti all’interno delle quali scorre corrente elettrica e che non sono adeguatamente isolate dal contatto. Ad esempio conduttori nudi (non isolati) sono parti attive.

Sempre per la Norma “lavoro non elettrico” è quello che viene eseguito a una distanza maggiore di 30 cm, ma inferiore a 300 cm dalle parti attive in tensione dell’impianto elettrico.

Inoltre il “lavoro elettrico” è ulteriormente suddiviso in “lavoro sotto tensione”, se esso viene eseguito a contatto con la parte attiva e “lavoro in prossimità”, se esso viene eseguito senza contatto con la parte attiva, ma entro una distanza di 30 cm dalla stessa.

Infine la Norma definisce anche il “lavoro fuori tensione”, nel caso in cui, indipendentemente dalla distanza a cui si opera, l’alimentazione elettrica a monte della parte attiva sia stata interrotta e messa in sicurezza.

L’interruzione dell’alimentazione deve avvenire mediante sezionamento certo, ad esempio mediante apertura del sezionatore di energia elettrica (interruttore magnetotermico o differenziale) a monte della parte attiva oppure mediante scollegamento della spina di alimentazione. In tal caso tra le parti attive e una parte metallica a terra non vi deve essere differenza di potenziale elettrico (le due parti devono essere pertanto equipotenziali).

Inoltre il sezionamento deve essere eseguito in sicurezza, cioè garantendo che effettivamente la parte attiva non sia in tensione e che durante l’esecuzione dei lavori non sia assolutamente possibile che essa possa tornare in tensione. La messa in sicurezza deve avvenire mediante mezzi tecnici (ad esempio sezionatori di energia posti in posizione di apertura e bloccati con lucchetti le cui chiavi sono in possesso di chi esegue il lavoro elettrico) e procedurali (controllo della effettiva equipotenzialità tra parti attive e terra, compilazione di modulo di messa in sicurezza dell’impianto da parte di preposto ai lavori).

Un ulteriore distinzione relativamente ai lavori elettrici va fatta in funzione della tensione di alimentazione nominale delle parti attive.

Secondo l’Allegato IX del Decreto:

In relazione alla loro tensione nominale i sistemi elettrici si dividono in:

  • sistemi di Categoria 0 (zero), chiamati anche a bassissima tensione, quelli a tensione nominale minore o uguale a 50 V se a corrente alternata o a 120 V se in corrente continua;
  • sistemi di Categoria I (prima), chiamati anche a bassa tensione, quelli a tensione nominale da oltre 50 fino a 1.000 V se in corrente alternata o da oltre 120 V fino a 1.500 V compreso se in corrente continua;
  • sistemi di Categoria II (seconda), chiamati anche a media tensione, quelli a tensione nominale oltre 1.000 V se in corrente alternata od oltre 1.500 V se in corrente continua, fino a 30.000 V compreso;
  • sistemi di Categoria III (terza), chiamati anche ad alta tensione, quelli a tensione nominale maggiore di 30.000 V”.

Nel seguito, come detto sopra, si considerano solo i sistemi elettrici di Categoria 0 e I.

In merito alla possibilità di eseguire lavori su impianti elettrici, il Decreto analizza separatamente il caso di lavoro elettrico e il caso di lavoro non elettrico.

Nel primo caso l’articolo 82, comma 1, lettere a) e b) (limitandosi ai sistemi di Categoria 0 e I) del Decreto stabilisce che:

E’ vietato eseguire lavori sotto tensione. Tali lavori sono tuttavia consentiti nei casi in cui le tensioni su cui si opera sono di sicurezza, secondo quanto previsto dallo stato della tecnica secondo la migliore scienza ed esperienza, o quando i lavori sono eseguiti nel rispetto delle seguenti condizioni:

  1. a) le procedure adottate e le attrezzature utilizzate sono conformi ai criteri definiti nelle norme tecniche;
  2. b) per sistemi di categoria 0 e I purché l’esecuzione di lavori su parti in tensione sia affidata a lavoratori riconosciuti dal datore di lavoro come idonei per tale attività secondo le indicazioni della pertinente normativa tecnica”.

Nel secondo caso l’articolo 83, comma 1 del Decreto, stabilisce che:

Non possono essere eseguiti lavori non elettrici in vicinanza di linee elettriche o di impianti elettrici con parti attive non protette, o che per circostanze particolari si debbano ritenere non sufficientemente protette, e comunque a distanze inferiori ai limiti di cui alla tabella 1 dell’allegato IX [300 cm], salvo che vengano adottate disposizioni organizzative e procedurali idonee a proteggere i lavoratori dai conseguenti rischi”.

DEFINIZIONE DELLE COMPETENZE DEI LAVORATORI PER LAVORI ELETTRICI

Relativamente ai lavori elettrici (in prossimità, sotto tensione, fuori tensione) e non elettrici la Norma definisce in maniera chiara i lavoratori che possono eseguire le varie tipologie di lavoro, in funzione della loro istruzione ed esperienza.

La Norma suddivide pertanto i lavoratori in:

  • Persona Esperta (PES): persona formata, in possesso di specifica istruzione ed esperienza tali da consentirle di evitare i pericoli che l’elettricità può creare;
  • Persona Avvertita (PAV): persona formata, adeguatamente istruita in relazione alle circostanze contingenti, da Persona Esperta, per metterla in grado di evitare i pericoli che l’elettricità può creare;
  • Persona Comune (PEC) Persona non Esperta e non Avvertita nel campo delle attività elettriche;
  • Persona Idonea ai lavori sotto Tensione (PEI): Persona Esperta o Avvertita che ha le conoscenze teorico/pratiche richieste per i lavori sotto tensione in Bassa Tensione.

Con riferimento a tale classificazione dei lavoratori, la Norma definisce in maniera chiara chi è abilitato a eseguire un lavoro elettrico:

  • il lavoro elettrico sotto tensione (a contatto con la parte attiva) può essere eseguito esclusivamente da una PEI;
  • il lavoro elettrico in prossimità (entro 30 cm dalla parte attiva) può essere eseguito da una PES o da una PAV oppure da una PEC, ma solo sotto la supervisione di una PES o sotto la sorveglianza di una PES o di una PAV;
  • il lavoro non elettrico (oltre i 30 cm, ma entro i 300 cm dalla parte attiva) può essere eseguito da una PES o da una PAV oppure da una PEC, ma solo sotto la supervisione di una PES o sotto la sorveglianza di una PES o di una PAV;
  • il lavoro fuori tensione (parte attiva sezionata a monte) può essere eseguito da una PES o da una PAV oppure da una PEC, ma solo sotto la supervisione di una PES.

La definizione data dalla Norma dei termini “supervisione” e “sorveglianza” sopra citati è la seguente.

La “supervisione” (che può essere svolta solo da una PES) è il complesso di attività svolte, prima di eseguire un lavoro, ai fini di mettere i lavoratori in condizioni di operare in sicurezza senza ulteriori necessità di controllo predisponendo, ad esempio, ambienti, misure di prevenzione e protezione, messa fuori tensione e in sicurezza di un impianto elettrico o parte di esso, installazione di barriere e impedimenti, modalità d’intervento, istruzioni.

La “sorveglianza” è l’attività di controllo costante (che può essere svolta da una PES o da una PAV) nei confronti di una PEC, atta a prevenire azioni pericolose, derivanti dalla presenza di rischio elettrico, che queste ultime potrebbero compiere (volontariamente e/o involontariamente) ignorandone la pericolosità.

La scelta se adottare la supervisione o la sorveglianza è a carico del datore di lavoro.

Una volta definito quali sono le categorie lavorative che possono effettuare e a quale condizioni lavori elettrici, occorre definire in che modo vengono attribuite le qualifiche e le abilitazioni di cui sopra.

In base alla Norma, l’attribuzione della qualifica di PES e di PAV per lavoratori dipendenti è di esclusiva pertinenza e quindi responsabilità del datore di lavoro.

Tale attribuzione non può essere delegata in quanto facente parte del processo di valutazione del rischio che, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del Decreto è di esclusiva responsabilità del datore di lavoro e non è delegabile.

Tale attribuzione, che deve specificare chiaramente la tipologia dei lavori a cui si riferisce, deve essere formalizzata per iscritto in ambito aziendale, mediante ad esempio attestato o abilitazione, che deve essere controfirmato per accettazione da parte del lavoratore designato.

Secondo la Norma i requisiti basilari per l’attribuzione da parte del datore di lavoro dei ruoli PES o PAV sono i seguenti:

  • il primo aspetto riguarda l’istruzione, cioè la conoscenza dell’impiantistica elettrica, dei pericoli ad essa connessi e della relativa normativa di sicurezza;
  • il secondo aspetto riguarda l’esperienza di lavoro maturata, quale requisito per poter avere confidenza della conoscenza o meno delle situazioni caratterizzanti una o più tipologie di lavori e della maggior parte delle situazioni anche non ricorrenti;
  • il terzo aspetto riguarda le caratteristiche personali, quelle maggiormente significative dal punto di vista professionale, quali le doti di equilibrio, attenzione, precisione e ogni altra caratteristica che concorra a far ritenere l’operatore affidabile.

I lavoratori che, a seguito della valutazione di cui sopra da parte del datore di lavoro, risultano senza la prevista formazione teorica e pratica, potrà essere attribuita la qualifica di PES o PAV solo a seguito di corso di formazione teorico e pratico da svolgersi da parte di enti di formazione accreditati.

Per l’ulteriore attribuzione a un lavoratore del ruolo di PEI, il datore di lavoro dovrà poi assumere a riferimento, una o più delle seguenti attività formative:

  • le attività lavorative e formative pregresse, anche eseguite in affiancamento;
  • la documentazione attestante l avvenuta frequenza con esito positivo di specifici corsi di formazione, con indicati gli argomenti trattati, le esercitazioni teoriche e pratiche effettuate e le valutazioni finali del corso espresse dall’organizzazione esecutrice dei corsi;
  • la formazione svolta in ambito aziendale.

Il profilo PEC non richiede invece nessun percorso formativo specifico, né prevede ovviamente alcuna attribuzione formale da parte del datore di lavoro. Deve però essere formalizzato all’organizzazione aziendale (dirigenti, preposti, lavoratori) quali sono i lavoratori da considerare come PEC, in quanto da ciò devono derivare le procedure e le modalità di operare su impianti elettrici.

In definitiva, il ruolo di PAV, PES, PEI può essere attribuita dal datore di lavoro solo a seguito di una analisi dettagliata del percorso formativo teorico e pratico e dell’esperienza lavorativa svolta in ambito di lavori elettrici da parte del lavoratore stesso.

L’attribuzione deve essere formale, controfirmata per accettazione da parte del lavoratore e diffusa a tutta l’organizzazione aziendale.

CONCLUSIONI

A seguito di quanto sopra riportato, relativamente al caso di sostituzione di sensori di fine corsa a tensioni di 110 V in corrente alternata, si può concludere che:

  • nel caso di contatto con i conduttori in tensione, si ha un “lavoro elettrico sotto tensione”: esso può essere eseguito esclusivamente da parte di una PEI (Persona Idonea ai lavori sotto Tensione);
  • nel caso di lavoro eseguito non a contatto con i conduttori in tensione, ma entro 30 cm da essi si ha un “lavoro elettrico in prossimità”: esso può essere eseguito da una PES (Persona Esperta) o da una PAV (Persona Avvertita) oppure da una PEC (Persona Comune), ma solo sotto la supervisione di una PES o sotto la sorveglianza di una PES o di una PAV;
  • nel caso di lavoro eseguito a una distanza maggiore di 30 cm dai conduttori in tensione, ma entro 300 cm da essi, si ha un “lavoro non elettrico”: esso può essere eseguito da una PES o da una PAV oppure da una PEC, ma solo sotto la supervisione di una PES o sotto la sorveglianza di una PES o di una PAV;
  • nel caso che sia stata sezionata a monte la tensione di alimentazione dei conduttori, in maniera certa e sicura (e garantita da una PES), si ha un “lavoro fuori tensione”: esso può essere eseguito da una PES o da una PAV oppure da una PEC, ma solo sotto la supervisione di una PES;
  • l’attribuzione della qualifica PES, PAV, PEI deve essere fatta dal datore di lavoro sulla base della formazione svolta dal lavoratore, sulla base della sua esperienza, sulla base delle sue competenze professionali;
  • l’attribuzione della qualifica PES, PAV, PEI deve essere formalizzata al lavoratore, deve essere controfirmata dallo stesso per accettazione e deve essere diffusa alla organizzazione aziendale.

In ogni caso pertanto un lavoratore PEC non può da solo eseguire alcun lavoro elettrico o non elettrico o fuori tensione su un impianto elettrico con tensione di alimentazione a 110 V, senza la supervisione e/o la sorveglianza di un altro lavoratore PES o PAV.

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“ILVA DA FUORI”: DOVE ERAVAMO RIMASTI?

Da: Articolo 21

http://www.articolo21.org

24 ottobre 2014

di Marianeve Santoiemma

Eravamo rimasti al primo di agosto 2014, che l’Unità chiudeva e questo blog finiva i suoi racconti di giorni di lotte, di gente per strada, di tante emozioni, di mille domande.

Ma spesso il silenzio in silenzio non ce la fa a stare e trova le strade per scrivere ancora.

Il sito di Articolo21 da oggi accoglie la nuova casa del blog “ILVA DA FUORI,” e grazie e davvero GRAZIE!

La storia, dunque continua, per chi di Taranto ancora vuol leggere nello spazio di qualche riflessione, ancorata sempre e solo ai fatti, che di questa città ne segnano il destino.

E voglio ripartire da qui, dal mese di ottobre, da quando il processo relativo ad ILVA, denominato “Ambiente svenduto”, in cui gli imputati sono 52, 49 persone e 3 società (Riva Fire, Riva Forni Elettrici e ILVA) per disastro ambientale, è rimasto a Taranto e a deciderlo è stata la Prima sezione penale della Cassazione, respingendo il ricorso presentato dai difensori degli imputati che chiedevano di trasferire il processo a Potenza.

A dire proprio dei difensori la richiesta era motivata dal fatto che non ci sarebbe stato il clima adatto per elaborare un giudizio sereno.

Era stata sollevata anche una questione di tipo procedimentale e tra le parti offese ci sono comunque tutti i cittadini di Taranto.

Dunque il 16 ottobre è ripartita la macchina della giustizia, che giustizia deve restituire a una città inquinata da fumi che salgono dai camini, e strisciano nell’illegalità che ha permesso che a Taranto si potesse davvero fare tutto senza doverne dar conto, senza curarsi della popolazione che per anni ha respirato fumi, veleni, ingoiando menzogne sui dati, e vivendo con la morte accanto, che faceva l’appello, che fa ancora l’appello a cui mai vorremmo rispondere, noi o un nostro caro, presente!

Un marea di costituzioni di parte civile, oltre 600, da parte degli avvocati nell’udienza preliminare, davanti al Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Taranto, Vilma Gilli e l’udienza è stata poi aggiornata al 21 novembre prossimo. Il GUP si è riservata di decidere sulle richieste di costituzione di parte civile depositate, tra cui il Comune di Taranto, già a giugno per i danni derivanti dalle emissioni inquinanti dell’Ilva, ma anche la Provincia di Lecce, Peacelink, Altamarea, Cittadinanza Attiva, Contramianto, l’Istituto autonomo case popolari di Taranto, una decina tra società e cooperative, Slow Food Puglia, mitilicoltori, allevatori, proprietari di cappelle funerarie del cimitero di San Brunone, i proprietari di immobili, ora deprezzati, del quartiere Tamburi, quello che più di tutti paga le conseguenze dell’inquinamento perché il più vicino allo stabilimento siderurgico.

E poi che cosa è successo ancora a Tarato nei mesi in cui non ho scritto?

E poi c’è Tempa Rossa, che divide la città: un progetto che prevede l’arrivo a Taranto di oro nero grezzo, che proviene dalla Valle del Sauro, Lucania, non per essere raffinato, ma per essere caricato su petroliere dirette verso altre raffinerie.

Un progetto e i suoi rischi. Il rischio legato all’inquinamento del mare e agli incidenti petroliferi perché il progetto Tempa Rossa prevede un aumento del traffico di petroliere in Mar Grande con rischio di sversamenti per cause accidentali o anche operazionali.

L’aumento del traffico di petroliere aumenta la probabilità di incidenti, quindi, gravi conseguenze sulle risorse ittiche marine.

Analizzando poi il Rapporto di Sicurezza presentato dall’azienda relativo al progetto Tempa Rossa si evincerebbe un aumento complessivo del rischio di incidente rilevante per l’interessamento del parco serbatoi situato lungo la Strada Statale 106 e aggiungere due serbatoi della capacità di 180.000 metri cubi, oltre quelli già esistenti, potrebbe determinare un aumento del rischio di incidente importante e la possibilità che il tutto possa interessare le aree circostanti la raffineria.

Eravamo rimasti…così come adesso, con la città nelle mani di chi crede che produrre poco lavoro valga la pena e dei rischi non si cura, nelle mani di chi ancora ha il coraggio di dire che senza lavoro non si può vivere, dimenticando che si lavora per vivere, non per morire!

Taranto, ti racconterò ancora e sempre così, con i fatti che qui accadono, con gli occhi di chi vorrebbe raccontarne altri, di lavoro pulito, di mare e turisti, di dignità di vita delle persone e di bambini a cui il futuro si può restituire.

Basterebbe solo smettere di inquinare.

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INTERPELLO: LE VISITE ESTERNE PER L’IDONEITA’ PSICOFISICA SONO RETRIBUITE

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 ottobre 2014

di Tiziano Menduto

Le visite periodiche per il rinnovo dell’idoneità psicofisica possono essere svolte al di fuori dell’orario di lavoro? E devono comunque essere retribuite come ore di lavoro? La risposta al quesito della Commissione per gli interpelli.

Non è la prima volta che Commissione per gli interpelli (prevista dall’articolo 12, comma 2 del Testo Unico in materia di salute e sicurezza nel lavoro, D.Lgs.81/08) interviene su temi inerenti la sorveglianza sanitaria nei luoghi di lavoro.

Si è soffermata ad esempio con l’Interpello n.8/13 del 24 ottobre 2013 sulla necessità della visita medica preventiva dopo un breve periodo di cessazione del rapporto di lavoro, o con l’Interpello n.1/13 del 2 maggio 2013 per rispondere sull’eventuale obbligo di visite mediche nei confronti di studenti minorenni partecipanti a stage formativi.

Tuttavia la Commissione Interpelli è tornata a parlare di sorveglianza sanitaria con il parere fornito il 6 ottobre 2014 nell’Interpello n.18/14 per rispondere a un semplice quesito: le visite periodiche per il rinnovo dell’idoneità psicofisica possono essere svolte al di fuori dell’orario di lavoro? E devono comunque essere retribuite come ore di lavoro?

Vediamo nel dettaglio il quesito.

A inoltrare l’stanza d’interpello è stata l’ Unione Sindacale di Base dei Vigili del Fuoco (USB) che ha chiesto il parere della Commissione in merito alla corretta interpretazione dell’articolo 41 del D.Lgs.81/08.

In particolare l’USB chiede di sapere:

  • se nell’effettuazione delle visite periodiche per il rinnovo dell’idoneità psicofisica all’impiego, come da articolo 41 del D.Lgs.81/08, detta visita va svolta in orario di lavoro o se il datore di lavoro ha facoltà di inviare il lavoratore a visita anche quando esso sia fuori dal normale orario di servizio;
  • se il tempo impiegato dal lavoratore per effettuare detta visita qualora si svolga al di fuori dell’orario di servizio deve o meno essere retribuito come ore di lavoro straordinario.

In merito all’istanza si osserva che la sorveglianza sanitaria rientra fra gli obblighi del datore di lavoro di cui all’articolo 18 del D.Lgs.81/08 con l’obiettivo della tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori attraverso la valutazione della compatibilità tra condizioni di salute e compiti lavorativi. E, tra l’altro, come previsto dall’articolo 20, comma 2, lettera i) del D.Lgs.81/08, il sottoporsi ai controlli sanitari rientra fra gli obblighi del lavoratore quale soggetto attivo del processo di sicurezza.

Tutto ciò premesso la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.

Ci si sofferma in particolare sul contenuto tassativo e la “ratio” dell’articolo 18, comma 1, lettera a), del Decreto in parola volto alla tutela della integrità fisica e psichica del lavoratore:

Articolo 18 – Obblighi del datore di lavoro e del dirigente

  1. Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:
  2. a) nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal presente decreto legislativo.

I vari riferimenti della normativa sulla sicurezza non lasciano spazi o deroghe circa la osservanza dell’obbligo prescritto dalla norma di salute e sicurezza. Le visite mediche in esame non possono, in considerazione della particolarità del bene tutelato, per nessun motivo essere omesse o trascurate dal soggetto obbligato, di contro il lavoratore non può esimersi dal sottoporsi all’effettuazione della visita medica, come stabilito dall’articolo 20, comma 1 e comma 2, lettera i) del D.Lgs.81/08:

Articolo 20 – Obblighi dei lavoratori

  1. Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.
  2. I lavoratori devono in particolare:

(…)

  1. i) sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente.

In particolare, continua il parere della Commissione Interpelli, se è pur vero che l’articolo 41 non indica espressamente che la visita medica debba essere eseguita durante l’attività lavorativa, è di tutta evidenza che l’effettuazione della visita medica è funzionale all’attività lavorativa e pertanto il datore di lavoro dovrà comunque giustificare le motivazioni produttive che determinano la collocazione temporale della stessa fuori dal normale orario di lavoro.

E comunque non si può ignorare quanto previsto dall’articolo 15, comma 2, che espressamente prevede che le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori.

Ciò posto, la Commissione ritiene che, in attuazione al disposto normativo sopra richiamato, i controlli sanitari debbano essere strutturati tenendo ben presente gli orari di lavoro e la reperibilità dei lavoratori. Laddove, per giustificate esigenze lavorative, il controllo sanitario avvenga in orari diversi, il lavoratore dovrà comunque considerarsi in servizio a tutti gli effetti durante lo svolgimento di detto controllo anche in considerazione della tutela piena del lavoratore garantita dall’ordinamento.

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DATORE DI LAVORO: GLI OBBLIGHI PER LA GESTIONE DELLE EMERGENZE

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

14 ottobre 2014

Una guida si sofferma sugli obblighi e sulle misure che il datore di lavoro deve adottare per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza. Le disposizioni generali, i piani di emergenza e l’aggiornamento delle misure di prevenzione.

Come riportato tra gli obblighi segnalati all’articolo 18 del D.Lgs.81/08, il datore di lavoro deve adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa.

La strategia per la pianificazione e l’adozione di misure per il controllo delle situazioni di rischio nelle emergenze ha subito in questi anni una vera e propria evoluzione: ora l’andamento e l’evoluzione di una situazione di emergenza sono fatti dipendere dal livello organizzativo interno dell’azienda (risorse umane predisposte e disponibili, sistemi impiantistici idonei, ecc.) e dalla capacità di contenere i danni (formazione professionale dei lavoratori). Insomma si richiede al sistema aziendale che l’organizzazione interna per affrontare l’eventuale stato di emergenza sia uno strumento operativo facente parte a tutti gli effetti dell’insieme dei provvedimenti di sicurezza da attuare.

A parlare in questi termini della gestione delle emergenze è una guida prodotta dall’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario (EBINTER), dal titolo “Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato sanzionatorio”, nata con l’obiettivo di fornire una chiave di lettura dei diversi adempimenti a carico dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti.

La guida ricorda che la gestione delle emergenze è disciplinata dagli articoli da 43 a 46 del D.Lgs.81/08, Decreto che riguardo alle disposizioni generali (articolo 43) prevede che il datore di lavoro debba:

  • organizzare i necessari rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza;
  • designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza;
  • informare tutti i lavoratori che possono essere esposti a un pericolo grave e immediato circa le misure predisposte e i comportamenti da adottare;
  • programmare gli interventi, prendere i provvedimenti e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro attività, o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro;
  • adottare i provvedimenti necessari affinché qualsiasi lavoratore, in caso di pericolo grave e immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, possa prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo, tenendo conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici disponibili;
  • garantire la presenza di mezzi di estinzione idonei alla classe di incendio e al livello di rischio presenti sul luogo di lavoro, tenendo anche conto delle particolari condizioni in cui possono essere usati.

Il documento sottolinea che solo una approfondita valutazione dei rischi permette di rilevare l’eventuale possibilità di avere incidenti anche particolarmente gravi e a bassa probabilità di accadimento, non evitabili con interventi di prevenzione e per i quali è necessario predisporre misure straordinarie da attuare in caso di reale accadimento.

Il piano di emergenza è proprio quell’insieme di misure straordinarie, o procedure e azioni, da attuare al fine di fronteggiare e ridurre i danni derivanti da eventi pericolosi per la salute dei lavoratori (e della eventuale popolazione circostante).

I principali obiettivi di un piano di emergenza aziendale sono quelli di:

  • ridurre i pericoli alle persone;
  • prestare soccorso alle persone colpite;
  • circoscrivere e contenere l’evento (in modo da non coinvolgere impianti e/o strutture che a loro volta potrebbero, se interessati, diventare ulteriore fonte di pericolo) per limitare i danni e permettere la ripresa dell’attività produttiva al più presto.

Ad esempio un piano di emergenza dovrà essere sicuramente predisposto per quelle attività che comportando il rischio specifico di incendio, esplosione, rilascio tossico e/o radioattivo, sono soggette ad una o più normative tecniche o legislative specifiche.

In tutte le restanti attività, salvo diversa determinazione, non si ritiene necessaria la stesura di un vero e proprio piano di emergenza, bensì può essere sufficiente la predisposizione di procedure formalizzate che prevedano:

  • una adeguata informazione e formazione dei lavoratori per quanto riguarda l’utilizzo degli equipaggiamenti di emergenza (estintori, autorespiratori, ecc.) determinati ed introdotti in base alla valutazione dei rischi;
  • una corretta gestione dei luoghi di lavoro (non ostruzione delle vie di esodo, rimozione, occultamento o manomissione degli equipaggiamenti di emergenza, ecc.);
  • una corretta e tempestiva manutenzione degli impianti.

La guida si sofferma poi sulla necessità (ex articolo 18, comma 1, lettera z) del D.Lgs.81/08) di aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione.

Infatti la “dinamicità” del processo di valutazione dei rischi comporta la necessità di continuo aggiornamento delle misure di prevenzione e protezione.

A seconda delle caratteristiche della “strategia prevenzionale assunta dall’azienda” possono essere individuati diversi livelli di piano di emergenza ciascuno dei quali, si ricorda, dovrà essere periodicamente adeguato a seconda della scala di gravità dei pericoli e dei mutamenti organizzativi aziendali.

In particolare vengono presentati nella guida tre diversi livelli di pianificazione:

  • piano di emergenza di unità o di impianto: quella parte del piano di emergenza complessivo che riguarda espressamente la singola unità o impianto;
  • piano di emergenza di stabilimento: viene predisposto quando l’azienda presenta più unità a rischio di eventi incidentali, o quando unità di per sé non a rischio possono essere interessate da incidenti verificatisi in altre unità;
  • piano di emergenza esterno: quel piano che viene messo a punto dalla pubblica Autorità per tutelare l’incolumità della popolazione e la salvaguardia dell’ambiente.

Rimandando alla lettura integrale della guida, concludiamo ricordando che un piano di emergenza di unità o di impianto prende in considerazione tutti gli eventi incidentali che possono verificarsi nell’unità o nell’impianto e deve individuare chiaramente:

  • responsabili locali per ciascun turno;
  • area/e operativa/e dove devono recarsi il responsabile del piano di emergenza di stabilimento, il responsabile locale, le squadre di intervento, i soccorritori e il nucleo degli addetti all’evacuazione: in caso di incidente il responsabile d Piano di Emergenza di stabilimento, effettuata una immediata valutazione dell’entità e dei possibili sviluppi qualitativi e quantitativi dell’evento, deciderà se attivare o meno i piani di emergenza di altre unità o dell’intera attività (piano di emergenza di stabilimento) o che interessano anche l’esterno (piano di emergenza esterno);
  • composizione delle squadre di intervento;
  • composizione del nucleo di soccorritori;
  • composizione dell’eventuale nucleo di evacuatori;
  • collocazione dell’equipaggiamento di emergenza e specificazione dei mezzi da utilizzare in base al tipo di evento incidentale;
  • collocazione dell’equipaggiamento di emergenza di scorta;
  • ubicazione dei DPI a disposizione del personale da evacuare;
  • sistemi di allarme per allertare le squadre di intervento, i soccorritori e gli addetti all’evacuazione, nonché le procedure per la loro attivazione;
  • sistemi di comunicazione tra aree operative, centri di raccolta e centro di controllo;
  • vie di esodo, centri di raccolta ed eventuali mezzi per l’ulteriore allontanamento delle persone, nonché le zone ad accesso limitato o interdetto.

L’intero documento “Datori di lavoro e lavoratori. Guida pratica agli adempimenti di sicurezza e all’apparato sanzionatorio” dell’Ente Bilaterale Nazionale del settore Terziario è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/131220_guida_sicurezza_Datori_di_lavoro.pdf

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ESPOSIZIONE A POLVERI DI LEGNO: GLI EFFETTI SULLA SALUTE DEI LAVORATORI

Da: PuntoSicuro

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17 ottobre 2014

Un intervento si sofferma gli effetti sulla salute dei lavoratori esposti alle polveri di legno. Gli effetti sulle vie aeree, sulla cute e i tumori maligni naso-sinusali. Fattori di rischio, risultati degli studi, terapia ed evoluzione dei tumori.

Abbiamo spesso raccontato i rischi di cancerogenicità delle polveri di legno. Già nel 1987 la classificazione della Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) aveva indicato una “sufficiente evidenza di cancerogenicità per gli addetti alla costruzione di mobili”, passando poi nel 1995 ad una “sufficiente evidenza di cancerogenicità delle polveri di legni duri per l’uomo” e nel 2009 la conferma della classificazione: le polveri dei legni duri sono inseriti tra i cancerogeni certi per l’uomo.

Senza contare poi le Direttive Europee (prima la Direttiva 99/38/CE e poi la Direttiva 2004/37/CE) che classificano a rischio cancerogeno “il lavoro comportante l’esposizione a polvere di legno duro”.

E il D.Lgs.81/08 ha ripreso tali indicazioni e inserito l’esposizione a polveri di legno duro nei cancerogeni dell’Allegato XLII.

Ricordiamo, a questo proposito, che i legni in linea generale si dividono in legni teneri (conifere o gimnosperme, con minore densità/compattezza) e legni duri (latifoglie o angiosperme, con maggiore densità/compattezza).

Per affrontare il tema degli effetti sulla salute delle polveri di legno, con particolare riferimento al rischio cancerogeno, possiamo presentare un intervento a un seminario che si è tenuto a Monza l’11 luglio 2013 in relazione al Piano Mirato di Prevenzione (PMP) “Applicazione del vademecum per il miglioramento della sicurezza e della salute con le polveri del legno” dell’ Azienda Sanitaria Locale della provincia di Monza e Brianza.

L’intervento “Effetti sulla salute delle polveri di legno”, a cura dell’ASL Monza e Brianza, ricorda innanzitutto gli effetti acuti a carico delle mucose oculari e delle prime vie aeree provocati dalle polveri di legno:

  • irritazione oculare con bruciore, arrossamento, lacrimazione;
  • irritazione nasale con ostruzione nasale, rinorrea, epistassi;
  • raffreddori frequenti;

Questi invece gli effetti sulla cute:

  • dermatite irritativa da contatto;
  • dermatite da prossimità senza contatto;
  • dermatite allergica da contatto.

Questi poi gli effetti a carico delle vie aeree:

  • rinite allergica;
  • asma (circa il 10% di tutti i casi di asma professionale);
  • alveolite allergica estrinseca da presenza di allergeni fungini;
  • forme respiratorie da endotossine batteriche.

Tuttavia, come abbiamo premesso in apertura di articolo, parlando di polvere di legno duro non si può non fare riferimento ai tumori maligni naso-sinusali (TNS), cioè i tumori maligni del naso e dei seni paranasali (i seni paranasali sono cavità vuote poste intorno al naso).

Sono generalmente tumori rari nella popolazione generale, ma per comprendere l’associazione tra tumore e esposizione alla polvere di legno è sufficiente comparare due dati:

  • incidenza dei tumori naso-sinusali nella popolazione generale: 0,4 – 2,0 casi per 100.000 maschi;
  • incidenza dei tumori naso-sinusali negli esposti a polveri di legno: 5 – 9 casi per 100.000 lavoratori.

Questi i fattori di rischio professionali per i TNS:

  • esposizione a polveri di legni duri;
  • esposizione a polveri di cuoio;
  • esposizione a cromo VI;
  • esposizione a composti del nichel;
  • esposizione a formaldeide.

Riguardo all’associazione tra l’esposizione a polveri di legno o cuoio e TNS si segnala anche uno studio dell’Istituto Tumori di Milano sui 115 casi di adenocarcinoma etmoidale visti dal 1987 al 2001: è emerso che il 90,4% dei soggetti con questo tumore era stato esposto a polveri di legno o cuoio.

Vi sono poi anche attività con nesso causale non certo, ma probabile/possibile, in relazione ai TNS:

  • tessili (formaldeide, polveri tessili);
  • saldatori (fumi di saldatura);
  • fornai e pasticceri (farina);
  • fonditori (Idrocarburi Policiclici Aromatici);
  • addetti del settore meccanico (nebbie oli minerali);
  • addetti industria chimica (nebbie acidi forti);
  • agricoltori (uso pesticidi arsenicali).

Riguardo in specifico alla cancerogenicità delle polveri di legno, non è in realtà definito se l’effetto cancerogeno è dovuto alle polveri come tali o alle varie sostanze presenti nei legni (tannini, conservanti, antimuffa, derivati fungini, ecc.).

Secondo alcuni studi l’effetto cancerogeno sarebbe anche legato alla riduzione della clearance mucociliare, della prolungata ritenzione delle polveri di legno nella cavità nasale.

Inoltre il rallentamento del trasporto muco-ciliare, la mucostasi, aumenta con la concentrazione delle polveri e con l’anzianità lavorativa.

E in ogni caso risulta da tutti gli studi che il rischio di adenocarcinoma (il tipo di tumore più frequente in questi casi) è in relazione con:

  • entità dell’ esposizione, con aumento del rischio per aumento dei livelli di polverosità;
  • durata dell’esposizione.

L’intervento segnala inoltre che esistono anche altri fattori di rischio non professionali per i TNS, ad esempio fumo di tabacco, poliposi nasale, papillomi invertiti e sinusiti croniche e riporta ulteriori dati per capire l’incidenza dei TNS:

  • sede del tumore: seno etmoidale e mascellare più frequenti, cavità nasale meno frequente;
  • periodo di latenza: 20-40 anni;
  • età di comparsa: superiore a 60 anni nel 75-80% dei casi.

E proprio perché i sintomi sono aspecifici (sono variabili anche perché dipendono dal seno interessato dal tumore) è possibile un ritardo diagnostico per sottovalutazione del problema da parte del paziente e del medico.

Vengono poi riportati alcuni dati relativi alla terapia ed evoluzione dei tumori maligni naso-sinusali.

La terapia è essenzialmente chirurgica, con pesanti effetti secondari:

  • è frequentemente demolitiva;
  • è gravata da un’alta percentuale di complicanze post-operatorie;
  • presenta una residua bassa qualità di vita postoperatoria per deformità facciali.

Inoltre i TNS sono purtroppo caratterizzati da bassa sopravvivenza: 77% a 1 anno, 50% a 3 anni, 40% a 5 anni. Insomma si tratta di una patologia grave, invalidante, a esito infausto.

L’intervento ricorda che in Lombardia, a seguito del Progetto Regionale Prevenzione Tumori Professionali, dal 2009 è attivo il Registro Regionale TNS per la ricerca e verifica di tutti i casi di tumore naso-sinusale. I casi, validati a livello regionale per congruenza diagnostica, di sede e istotipo (relativo alla tipologie di cellule presenti in un tessuto), vengono smistati ai Servizi PSAL delle ASL per tutte le indagini successive che proseguono secondo l’iter già consolidato.

Riportiamo infine le conclusioni che indicano quali possono essere le strade per migliorare la prevenzione di questi tumori:

  • per diminuire l’esposizione alle polveri di legno non occorrono nuove mirabolanti invenzioni tecnologiche;
  • occorre gestire bene/migliorare/potenziare gli impianti di aspirazione che ormai si trovano in ogni fabbrica;
  • occorre fare bene la manutenzione degli impianti e farla sempre;
  • occorre informare/formare i lavoratori.

Il documento “Effetti sulla salute delle polveri di legno” a cura dell’ASL Monza e Brianza è scaricabile all’indirizzo:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/141016_ASL_polveri_legno_effetti_salute.pdf

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RISCHIO PIU’ ELEVATO DI TUMORE AL POLMONE PER I MURATORI

Da: PuntoSicuro

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20 ottobre 2014

I muratori possono essere esposti a numerosi cancerogeni occupazionali, compresa la silice cristallina e l’asbesto. Uno studio analizza la relazione tra il lavoro di muratore e l’insorgenza di cancro polmonare.

I muratori possono essere esposti a numerosi cancerogeni occupazionali, compresa la silice cristallina e l’asbesto. In questo studio è stata analizzata la relazione tra il lavoro di muratore e l’insorgenza di cancro polmonare.

I dati provengono dal progetto SYNERGY che riunisce numerosi studi caso-controllo sul tumore polmonare effettuati in diversi paesi, inclusi molti paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Ungheria), Canada, Cina (Hong Kong) e Nuova Zelanda. Obiettivo principale è la valutazione di effetti sinergici di cancerogeni occupazionali (amianto, silice cristallina, idrocarburi policiclici aromatici, composti cromo-nickel).

L’Italia partecipa con studi effettuati a Torino, a Roma, in Veneto e in Lombardia. Numerosi sottoprogetti sono stati pubblicati o sono in corso. Tra le 15.608 persone che hanno avuto una diagnosi di tumore polmonare e che rappresentano i casi, 695 hanno lavorato sempre come muratori, mentre fra le 18.531 persone del gruppo di controllo i muratori erano 469.

Tra gli uomini che hanno sempre svolto il lavoro di muratore la probabilità di sviluppare il tumore polmonare è superiore del 50% rispetto a chi non ha svolto questo tipo di lavoro.

Questi dati tengono conto dell’abitudine al fumo, delle differenze tra i diversi centri che hanno condotto lo studio e delle occupazioni precedenti che possono aver comportato esposizione a cancerogeni certi o sospetti. Vi è inoltre una relazione evidente con la durata del lavoro. Il rischio relativo è maggiore per il carcinoma squamoso e il carcinoma a piccole cellule rispetto all’adenocarcinoma.

Nel corso del loro lavoro, i muratori possono essere esposti a numerosi cancerogeni occupazionali, incluso l’asbesto e la silice cristallina. Quest’ultima, classificata come “cancerogeno certo” per l’uomo nel 1997 dall’Agenzia Internazionale sul Cancro (IARC), non è ancora stato oggetto di alcuna classificazione da parte della Comunità Europea.

Finora gli studi pubblicati non avevano tenuto conto dell’intera storia lavorativa delle persone e dell’abitudine al fumo e non erano riusciti a stabilire una relazione solida tra il lavoro di muratore e l’insorgenza del tumore al polmone.

Questo studio attinge i dati dalla più grande raccolta di studi caso-controllo sul tumore polmonare in cui per ogni persona è presente sia l’intera storia lavorativa sia quella relativa all’abitudine al fumo. Gli autori hanno riscontrato che il rischio di tumore polmonare aumenta in proporzione alla durata del lavoro di muratore.

Come sottolinea Dario Consonni, primo autore di questo lavoro: “L’associazione è plausibile vista l‘esposizione quotidiana a silice libera cristallina e (saltuaria e limitata ad alcune operazioni) ad amianto. I risultati suggeriscono la necessità di introdurre adeguate misure tecniche per ridurre le esposizioni a polveri di quarzo e di un giusto riconoscimento della natura professionale del tumore polmonare nei muratori (e in altre occupazioni del settore edilizio) da parte degli istituti assicuratori”.

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DELEGA DI FUNZIONI: REQUISITI DI VALIDITA’ DELL’ISTITUTO DELLA SUBDELEGA

Da: PuntoSicuro

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23 ottobre 2014

di Rolando Dubini, avvocato in Milano

Il soggetto delegato dal datore di lavoro può a sua volta subdelegare alcuni dei propri compiti. La normativa, l’istituto della subdelega, l’obbligo del delegato di vigilare il subdelegato e i requisiti di validità della subdelega.

Come già ricordato, l’articolo 16 del D.Lgs.81/08 disciplina i requisiti di sostanza e di forma che la delega dei compiti di prevenzione deve contenere per essere efficace.

Articolo 16 – Delega di funzioni

  1. La delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni:
  2. a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;
  3. b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
  4. c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
  5. d) che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate.
  6. e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
  7. Alla delega di cui al comma 1 deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità.
  8. La delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. L’obbligo di cui al primo periodo si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4.

3-bis. Il soggetto delegato può, a sua volta, previa intesa con il datore di lavoro delegare specifiche funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro alle medesime condizioni di cui ai commi 1 e 2. La delega di funzioni di cui al primo periodo non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite. Il soggetto al quale sia stata conferita la delega di cui al presente comma non può, a sua volta, delegare le funzioni delegate.

Il D.Lgs.196/09 ha aggiunto all’articolo 16 del D.Lgs.81/08 il nuovo comma 3-bis, che costituisce una sorta di riconoscimento legislativo all’istituto della subdelega:

3-bis. Il soggetto delegato può, a sua volta, previa intesa con il datore di lavoro delegare specifiche funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro alle medesime condizioni di cui ai commi 1 e 2. La delega di funzioni di cui al primo periodo non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite. Il soggetto al quale sia stata conferita la delega di cui al presente comma non può, a sua volta, delegare le funzioni delegate.

La disposizione in questione non solo riconosce esplicitamente la praticabilità della subdelega, ma prevede anche un limite ben preciso: il datore di lavoro può esercitare la facoltà di delegare i propri compiti prevenzionistici e protezionistici, esclusi quelli indelegabili di cui all’articolo 17 del D.Lgs.81/08, e il (suo) soggetto delegato, previa intesa col datore di lavoro, che può risultare anche dal testo della delega originaria medesima, può a sua volta subdelegare (solo) alcuni dei propri compiti (“specifiche funzioni”), rispettando al contempo le condizioni di validità ed efficacia della delega di cui ai primi due commi dell’articolo 16 del D.Lgs.81/08, ovvero:

  • che essa risulti da atto scritto recante data certa;
  • che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
  • che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
  • che essa attribuisca al delegato l’ autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate.
  • che la delega sia accettata dal delegato per iscritto
  • che alla delega sia data adeguata e tempestiva pubblicità.

Il Supremo Collegio, in una delle più argomentate sentenze in materia di subdelega per quel che riguarda le funzioni antinfortunistiche, ha anticipato e chiarito il contesto della disposizione di cui al nuovo comma 3 bis del D.Lgs.81/08, sottolineando che “in tema di lesioni colpose per violazione di norme antinfortunistiche qualora la Corte di Cassazione, ai fini dell’accertamento della responsabilità del direttore dello stabilimento ovvero del caporeparto subdelegato, abbia richiesto al giudice di rinvio di accertare se il predetto direttore aveva il potere di organizzare diversamente il lavoro, disponendo dei necessari mezzi finanziari, ed il giudice di rinvio abbia accertato che tali mezzi economici erano nella disponibilità del direttore dello stabilimento (per i poteri attribuitigli dal regolamento aziendale e per l’ampiezza della preposizione institoria), escludendo che il subdelegato godesse di capacità di spesa e disponibilità finanziaria, è irrilevante accertare quali fossero i compiti del capo reparto, la cui responsabilità resta esclusa per l’indisponibilità di mezzi finanziari, ovvero verificare l’adempimento di specifici obblighi del direttore, il cui inadempimento sarebbe sufficiente a configurarne la colpa, dal momento che la responsabilità di quest’ultimo deriva dall’articolo 2087 del Codice Civile e dall’articolo 4 del D.P.R.547/55” (Sentenza n.1769 del 15 dicembre1997 della Cassazione Penale, sezione III).

Si veda altresì la Sentenza n.20604 del 1 giugno 2005 della Cassazione Penale, sezione IV: la Corte riconosce che la subdelega sia generalmente ammessa sia pure entro limiti rigorosi dalla giurisprudenza, nonostante il principio civilistico, secondo cui “delegatus non potest delegare”.

Sull’obbligo del delegato di vigilare il subdelegato si è stabilito, con riferimento a decisione conforme inedita, in relazione alla validità delle subdeleghe, “l’irrilevanza del fatto che esse, pur se ritenute valide, non esimevano l’imputato dall’obbligo di controllare che gli eventuali subdelegati rispettassero la normativa in materia di prevenzione degli infortuni” (Sentenza n.39060 del 26 maggio 2004 della Cassazione Penale, sezione IV).

In tema di lesioni colpose per violazione di norme antinfortunistiche, ai fini dell’accertamento della responsabilità del direttore dello stabilimento ovvero del capo reparto subdelegato, la Suprema Corte ha richiesto al Giudice di rinvio di accertare se il predetto direttore aveva il potere di organizzare diversamente il lavoro, disponendo dei necessari mezzi finanziari, ed il Giudice di rinvio ha accertato che tali mezzi economici erano nella disponibilità del direttore dello stabilimento (per i poteri attribuitigli dal regolamento aziendale e per l’ampiezza della preposizione institoria), e ha perciò escluso che il subdelegato godesse di capacità di spesa e disponibilità finanziaria, giudicando così irrilevante accertare quali fossero i compiti del capo reparto, la cui responsabilità resta esclusa per l’indisponibilità dei mezzi finanziari (Sentenza n. 1769 del 15 dicembre 1997 della Cassazione Penale, sezione III).

Occorre infine sottolineare i requisiti di validità della subdelega:

  • preventiva autorizzazione scritta (nell’atto di delega del datore di lavoro al suo delegato) del datore di lavoro: il datore di lavoro (delegante di primo livello) deve essere d’accordo con la distribuzione di funzioni gestionali da parte del proprio delegato (primo periodo del citato comma 3-bis), e quindi, volendo, può anche precisare quali siano i compiti subdelegabili, e quali non lo siano;
  • continenza della subdelega nella delega, ovvero non può il delegato attribuire al subdelegato poteri più ampi dei propri (ad esempio quelli economici);
  • specificità delle funzioni subdelegate: le funzioni oggetto di subdelega devono essere indicate in modo analitico e specifico e in nessun caso possono coincidere e rivestire la stessa ampiezza di quelle che il datore di lavoro ha conferito al proprio delegato.

 

 

 

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