SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.186 DEL 02/12/14

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SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N.186 DEL 02/12/14

 

INDICE

  • Il Decreto Legislativo 81/08 e il mobbing: quali tutele?
  • Over 40: l’età del non lavoro
  • Comunicazione e terremoti
  • Schede di rischio da sovraccarico biomeccanico INAIL
  • Il registro dei controlli antincendio e la normativa vigente
  • Applicazione delle norme di prevenzione ai terzi esposti al rischio
  • Gli interventi di manutenzione sui carrelli elevatori

 

Invito ancora tutti i compagni della mia mailing list che riceveranno queste notizie a diffonderle in tutti i modi.

La diffusione è gradita e necessaria. L’obiettivo è quello di diffondere il più possibile la cultura della salute e della sicurezza e la consapevolezza dei diritti dei lavoratori a tale proposito.

L’unica preghiera, per gli articoli firmati da me, è quella di citare la fonte.

 

Marco Spezia

SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!

sp-mail@libero.it

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IL DECRETO LEGISLATIVO 81/08 E IL MOBBING: QUALI TUTELE?

 

MEMORIA PRESENTATA AL WORKSHOP “IL MOBBING TRA PREVENZIONE E DANNO: LE MODIFICHE POSSIBILI IN AMBITO GIURIDICO-NORMATIVO NAZIONALE E REGIONALE”

FIRENZE 28 NOVEMBRE 2014

 

Il Decreto Legislativo 9 aprile 08, n. 81 (“Testo Unico sulla sicurezza”, nel seguito Decreto), è l’atto normativo che definisce gli adempimenti a carico del datore di lavoro e dei dirigenti di qualunque azienda, per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

 

Il Decreto recepisce per la prima volta in Italia, rispetto alla precedente normativa (Decreti degli anni ’50 e D.Lgs.626/94), le novità introdotte nel corso degli anni sulla tutela della salute dei lavoratori in senso più ampio, andando anche a richiedere la valutazione degli aspetti legati allo stress lavoro-correlato.

Il Decreto però nulla dice esplicitamente in merito alla tutela dei lavoratori dagli altri cosiddetti “rischi psico-sociali” e in particolare da fenomeni come il mobbing, il burn out, le molestie, lo stalking.

 

Anche da esame della numerosa giurisprudenza in merito (tra tutte Cassazione Penale Sezione III Sentenza n.27469 del 7 luglio 2008, Cassazione Penale sezione VI Sentenza n.32366 del 10 agosto 2009, Cassazione Penale sezione VI Sentenza n.774 del 14 gennaio 2011) si evince che, dove sono stati rilevati mancati adempimenti alla normativa vigente e quindi dove sono stati riconosciuti dei reati penali, essi hanno sempre fatto riferimento all’articolo 572 del Codice Penale (Maltrattamenti contro familiari e conviventi: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni”) e non ai dettati del Decreto.

In realtà da una attenta lettura dei vari disposti del Decreto appare evidente che esso sia finalizzato alla salvaguardia della salute dei lavoratori anche relativamente a tutti i rischi psico-sociali in generale e in particolare agli atti vessatori nei luogo di lavoro, cioè alle varie forme di mobbing.

 

Per meglio comprendere quanto sopra affermato, occorre analizzare puntualmente i vari passi del decreto e di altra normativa ad esso correlata.

 

Giova partire proprio dalle definizioni contenute all’interno dell’articolo 2 del Decreto.

 

In tale ambito (articolo 2, comma 1, lettera o) del Decreto) la “salute” dei lavoratori è definita come:

stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.

Viene quindi superato il concetto di salute come di una qualità legato alla sola sfera fisica, allargandolo a comprendere anche il benessere mentale e sociale.

E’ chiaro da questa definizione che l’obbligo di tutela della salute del lavoratore, posto a capo del datore di lavoro, non deve ormai limitarsi ai soli rischi per l’integrità fisica, ma deve estendersi anche a quelli legati alla sfera mentale e sociale, come possono essere appunto quelli derivanti da atti vessatori sul luogo di lavoro.

 

Nella definizione di valutazione dei rischi (lettera q) del citato articolo 2, comma 1 del Decreto):

valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”;

viene poi introdotto la locuzione “tutti” (già compresa anche nel D.Lgs.626/94, a partire dalla Legge 1 marzo 2002 n.39), per indicare la necessità di esaminare non solo i rischi per la salute di carattere prettamente fisico, ma anche quelli di natura fisica e sociale e di conseguenza di adottare adeguate misure di prevenzione e protezione per tutelare la salute, intesa, come prima detto, nel suo contesto più ampio di benessere anche mentale e sociale.

 

La locuzione “tutti” riferita ai rischi da individuare, classificare, eliminare ove possibile o ridurre compare di nuovo ogni qual volta nel Decreto si parla del processo di valutazione e riduzione dei rischi, che è poi il processo che il Decreto stesso pone come cardine di tutta la politica aziendale di tutela di salute e sicurezza.

 

Infatti all’articolo 17, comma 1, lettera a) è specificato che:

Il datore di lavoro non può delegare la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28”;

e al richiamato articolo 28, comma 1 è ulteriormente specificato che:

La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) […] deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004 […]”.

 

Il successivo comma 1-bis dell’articolo 28 del Decreto chiarisce le modalità di valutazione del rischio, relativamente al solo stress lavoro-correlato:

La valutazione dello stress lavoro-correlato di cui al comma 1 è effettuata nel rispetto delle indicazioni di cui all’articolo 6, comma 8, lettera m-quater) [indicazioni della Commissione Consultiva], e il relativo obbligo decorre dalla elaborazione delle predette indicazioni e comunque, anche in difetto di tale elaborazione, a fare data dal 31 dicembre 2010”.

 

Occorre mettere in evidenza come al comma 1, relativamente ai “gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari” compare la locuzione “ivi compresi” e relativamente allo “stress lavoro-correlato” compare la locuzione “anche quelli”, indicando chiaramente che la valutazione dei rischi particolari e quelli da stress lavoro correlato sono prescrizioni indicative, ma non esaustive.

Pertanto all’interno di “tutti i rischi”, vanno ricompresi non solo quelli da stress lavoro- correlato, ma in generale tutti i possibili rischi per la salute (secondo la sua definizione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera o) sopra richiamata) e la sicurezza dei lavoratori.

 

A conferma di quanto sopra, numerosa giurisprudenza in merito (tra tutte Cassazione Penale sezione III Sentenza n.4063 del 28 gennaio 2008, Cassazione Penale sezione IV Sentenza n.38157 del 29 settembre 2009, Cassazione Penale sezione IV Sentenza n.4917 del 4 febbraio 2010) conferma che nell’ambito del processo di valutazione dei rischi di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) del Decreto i rischi da valutare non possono essere solo quelli esplicitamente richiamati dall’articolo 28, comma 1 o dai Capi successivi al I del decreto, ma tutti quelli che effettivamente possono potenzialmente minare la salute e la sicurezza dei lavoratori.

 

Un’ulteriore considerazione sulla necessità di inserire tutti i rischi psico-sociali all’interno del documento di valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) del Decreto deriva poi dalla lettura dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, richiamato dall’articolo 28, comma 1 relativamente allo stress lavoro-correlato.

 

Al punto 2 (“Oggetto”) di tale accordo si sancisce che:

Riconoscendo che la sopraffazione e la violenza sul lavoro sono fattori stressogeni potenziali, ma che il programma di lavoro 2003-2005 delle parti sociali europee prevede la possibilità di una contrattazione specifica su questi problemi, il presente accordo non riguarda né la violenza sul lavoro, né la soppraffazione sul lavoro, né lo stress postraumatico”.

 

Ciò significa che l’accordo dell’8 ottobre 2004, per come è stato impostato, non entra nel merito dei rischi psico-sociali legati alla sopraffazione e alla violenza sul lavoro e rimanda per tali aspetti a ulteriore contrattazione tra le parti sociali europee (recepita con l’accordo quadro europeo relativo alle molestie e alla violenza sul luogo di lavoro del 26 aprile 2007), ma ciò nondimeno esso afferma in modo esplicito che la sopraffazione e la violenza sul lavoro costituiscono “fattori stressogeni potenziali” e quindi pericoli per la salute, rispetto ai quali, secondo la normativa italiana sopra richiamata, occorre eseguire specifica valutazione del rischio.

 

A maggior ragione il citato accordo quadro europeo relativo alle molestie e alla violenza sul luogo di lavoro del 26 aprile 2007 conferma implicitamente che tutti i rischi psico-sociali, rientrano nei rischi per la salute di cui occorre eseguire specifica valutazione.

 

Tale accordo afferma infatti al Punto 1 (“Introduzione”) che:

Le legislazioni nazionali e comunitaria stabiliscono l’obbligo dei datori di lavoro di proteggere i lavoratori contro le molestie e la violenza sul luogo di lavoro”.

La nota in calce a tale Punto indica tra le Direttive di riferimento la 89/391/CEE “concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro”, di cui il Decreto è il recepimento in Italia.

 

E ancora, al Punto 3 (“Descrizione”) l’accordo afferma che:

Molestie e violenza possono essere esercitate da uno o più lavoratori o dirigenti, allo scopo e con l’effetto di ferire la dignità della persona interessata, nuocere alla sua salute e/o creare un ambiente di lavoro ostile”;

riconoscendo come moleste e violenze possano causare un rischio per la salute del lavoratore, che, in quanto tale, deve essere ricompreso nella valutazione di tutti i rischi per salute e sicurezza.

 

Ultimo aspetto da esaminare all’interno del Decreto per confermare che tutti i rischi psico-sociali debbano essere considerati dal datore di lavoro in applicazione dell’obbligo di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), è quello relativo alla formazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), che, ai sensi dell’articolo 33 “è utilizzato dal datore di lavoro” con compiti finalizzati anche “all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi”.

 

Ai sensi dell’articolo 32, comma 2 del Decreto infatti i corsi di formazione e specializzazione per i RSPP “devono rispettare in ogni caso quanto previsto dall’accordo sancito il 26 gennaio 2006 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 37 del 14 febbraio 2006, e successive modificazioni”.

 

L’accordo del 26 gennaio 2006 richiamato specifica al Punto 2.3 i contenuti obbligatori per la formazione dei RSPP e all’interno di quelli del modulo C (specifico ed esclusivo per i soli RSPP) cita anche “prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergonomica e psico-sociale”.

 

Il citato accordo definisce poi nell’Allegato A3, ancora più in dettaglio, gli obiettivi e il programma del modulo C per RSPP. In tale sede l’accordo inserisce tra gli obiettivi quello di fare acquisire ai RSPP “conoscenza su […] fattori di rischio psico-sociali ed ergonomici” e all’interno del programma del modulo alla voce “Rischi di natura pisco-sociale” inserisce “elementi di comprensione e differenziazione fra stress, mobbing e bum-out“, “conseguenze lavorative dei rischi da tali fenomeni sulla efficienza organizzativa, sul comportamento di sicurezza del lavoratore e sul suo stato di salute“, “strumenti, metodi e misure di prevenzione“.

 

E’ evidente che, se il legislatore ha messo in chiara evidenza la necessità che il RSPP acquisisca specifiche conoscenze sui rischi di natura psico-sociale, tra cui sono esplicitamente richiamati mobbing e burn-out è perché vuole che il RSPP sia di supporto al datore di lavoro nella esecuzione della valutazione dei rischi (come previsto dall’articolo 33), anche relativamente a tali aspetti.

 

Quanto sopra, che deriva da una lettura puntuale e critica del testo del Decreto e di altri atti normativi a esso collegati è confermato anche dal Procuratore della Repubblica Raffaele Guariniello nel suo libro “Il Testo Unico Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza” (edizioni Wolters Kluwer Terza edizione 2011), che, a seguito di analoga considerazioni, conclude:

L’analisi or ora svolta autorizza a concludere che la regolamentazione speciale dettata dall’articolo 28, comma 1-bis del D.Lgs.81/08 trova applicazione con esclusivo riguardo al rischio stress lavoro-correlato, e che, per contro, la valutazione dei rischi psico-sociali diversi dallo stress lavoro-correlato rimane sottoposta alla disciplina generale contenuta nell’articolo 28, comma 1 del D.Lgs.81/08. Pertanto, l’obbligo di valutare i rischi psico-sociali diversi dello stress lavoro-correlato è insorto alla data di entrata in vigore del D.Lgs.81/08”.

 

Una volta assodato che nell’ambito del processo di valutazione di tutti i rischi (obbligo non delegabile del datore di lavoro) rientra anche la valutazione dei rischi psico-sociali, compreso il mobbing e il burn out, giova ricordare che in esito a tale processo, il datore di lavoro deve formalizzare un documento che, ai sensi dell’articolo 28, comma 2 del Decreto deve contenere:

a) una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa […];

  1. b) l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate […];
  2. c) il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
  3. d) l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri;

[…]”.

 

Pertanto il datore di lavoro, una volta individuati, valutati e classificati i rischi di natura psico-sociale, tra cui il mobbing, nell’ipotesi che essi siano presenti e suscettibili di creare danno alla salute dei lavoratori, deve anche obbligatoriamente adottare specifiche misure di prevenzione (modalità di controllo e di segnalazione di episodi, formazione a lavoratori, preposti e dirigenti, vigilanza, ecc.), specificandone i termini temporali di attuazione e le procedure attraverso le quali tali misure vengono adottate dalle varie figure aziendali, al fine di eliminare ove possibile o comunque ridurre tale tipologia di rischi.

 

Quanto sopra esposto deriva da un’analisi critica del Decreto che, come detto, trova riscontro anche presso alcuni magistrati (Raffaele Guariniello in primis).

Si riscontra però un’evidente difficoltà nell’applicazione letterale di quanto disposto dal Decreto in merito alla tutela dei lavoratori dal mobbing e da altri rischi psico-sociali per i seguenti motivi:

  • non esiste ancora giurisprudenza consolidata sull’applicazione del Decreto a casi di mobbing o di rischi psico-sociali;
  • al di là di qualche caso isolato, le Procure e i Tribunali non considerano il mobbing come reato penale perseguibile, né ai sensi del Decreto, né ai sensi del Codice Penale e in generale vi sono opinioni diverse e spesso contrastanti in merito;
  • non vi è nessun interesse da parte delle aziende di analizzare, valutare ed eliminare i rischi psico-sociali e in particolare il fenomeno del mobbing, anche perché spesso molestie o prevaricazioni nei luoghi di lavoro sono incoraggiate dalle aziende stesse;
  • relativamente ai rischi sociali vi è scarsa sensibilizzazione e preparazione anche all’interno degli Organi di Vigilanza sulla salute sul lavoro (ASL).

 

Per tutto quanto sopra appare ancora difficile una lotta contro i rischi psico-sociali sui luoghi di lavoro condotta solo con la richiesta di integrale applicazione dei dettati del Decreto. Si ritiene perciò utile in tal senso individuare altre strade parallele a quella citata e finalizzate al medesimo scopo (ad esempio leggi Regionali, modifiche al Decreto, esposti alla Magistratura, ecc.).

 

Marco Spezia

ingegnere e tecnico della salute e della sicurezza sul lavoro

Medicina Democratica

Progetto “Sicurezza sul lavoro – Know your rights!”

 

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OVER 40: L’ETA’ DEL NON LAVORO

 

Da Diritti Distorti

http://www.dirittidistorti.it

Di Stefano Giusti sociologo

 

Dario ha 45 anni, ed è un ex impiegato di una piccola azienda di software: sono cinque anni che è stato licenziato e da allora non ha più lavorato, se non saltuariamente come consulente: da due anni si è trasformato in casalingo…

 

Si occupa delle sue due figlie e vivono con lo stipendio della moglie, impiegata alle poste. Donatella 47 anni, lavorava come responsabile comunicazione in un’azienda pubblicitaria. Perso il lavoro è entrata in una spirale kafkiana, fatta di centinaia di curriculum spediti e rarissimi colloqui che si infrangevano sempre sulla barriera dell’età. Per lei oltre che disoccupata, c’è la sfortuna di essere donna, situazione che in Italia per chi perde lavoro significa la quasi totale “morte civile”.

 

Dario e Donatella come tanti altri, sono alcuni invisibili prodotti dello schizofrenico mercato italiano del lavoro che, sotto cifre e numeri sempre stirati a destra e sinistra per dimostrare a seconda dei casi che la situazione è soddisfacente o tragica, nasconde nuovi e sconosciuti fenomeni sociali, come quello della disoccupazione in età matura, cosiddetta “over 40”.

Si tratta di persone che hanno perso il lavoro intorno ai 40 anni e che, malgrado qualifiche ed esperienze più o meno alte, non lo ritrovano più o alla meno peggio faticano a ritrovarlo, passando da una collaborazione precaria a un’altra.

 

Nel senso comune legato all’analisi del fenomeno, si pensa al disoccupato over 40 quasi sempre come a un manager di alto livello, liquidato con una super buonuscita e incapace di fare alcunché che non sia comandare; oppure a un travet, completamente digiuno di computer e lingua inglese abituato a passare le giornate mettendo timbri e archiviando a mano polverose pratiche.

 

Questo stereotipo, peraltro ancora molto in voga presso tanta sociologia spicciola, anche sindacale, era valido fino a 10/15 anni fa. Oggi la situazione è completamente degenerata e nella condizione di disoccupato invisibile si trovano fasce sociali trasversali, alte medie e basse, con lauree o diplomi, anni di esperienza e specializzazioni, colletti bianchi e lavoratori poco qualificati.

Tutti accomunati da un unico problema: essere usciti dal mercato del lavoro e non riuscire più a rientrarci. Il fenomeno della disoccupazione, già di per se drammatico, nel caso degli over 40 assume contorni ancora più pesanti se pensiamo che gran parte di queste persone ha una famiglia e degli impegni sociali (mutuo, affitto, famiglie monoreddito) a cui far fronte.

 

In Italia si stima che i lavoratori over 40 esclusi dal mercato del lavoro siano ormai quasi il 50% sul totale dei disoccupati.

La stima è parziale, in quanto l’ISTAT non classifica la disoccupazione per fasce d’età e gli unici dati sono quelli forniti dalle associazioni che si occupano del fenomeno.

 

Malgrado ciò nessun governo ha messo in cantiere iniziative legislative specifiche, arrivando a ignorare il problema della disoccupazione in età matura che ancora non è riconosciuto come fenomeno sociale.

Non esistono, se non per sporadiche iniziative sul territorio, nemmeno strutture pubbliche specifiche dedicate al ricollocamento di questa fascia di lavoratori che viene abbandonata a se stessa e che, nella maggior parte dei casi, non gode nemmeno degli ammortizzatori sociali che vengono riconosciuti nell’ambito delle grandi ristrutturazioni o dismissioni aziendali tipo Alitalia.

 

In Italia infatti il 69% dei disoccupati non ha nessun accesso a forme di sostegno reddituale né’ di ammortizzatore sociale.

Secondo l’ultimo rapporto di monitoraggio del Ministero del lavoro, gli ammortizzatori sociali italiani coprono solo il 31% dei disoccupati con sussidi di varia natura. Gli altri devono arrangiarsi da soli.

 

Ma le assurdità del cosiddetto “mercato” italiano non si fermano qui.

Basti pensare alla usuale pratica della discriminazione per età che viene citata sugli annunci di lavoro.

 

Da una rilevazione compiuta dalla SDA Bocconi e da Astra Demoskopea sulle inserzioni, risulta che in oltre 5.000 annunci pubblicati su quotidiani nazionali e siti Internet, quasi il 60% pone un vincolo di età che, nella maggioranza dei casi, si attesta intorno ai 35 anni. Nella media comunque i destinatari delle inserzioni sono persone tra i 24,8 e i 34,2 anni. D’altronde basta aprire un qualsiasi giornale o fare una passeggiata davanti alle vetrine delle Agenzie per il lavoro per scoprire che la gran parte delle offerte pone vincoli di età molto limitanti. Viene da chiedersi perché per fare il consulente di vendita di veicoli si debbano avere al massimo 35 anni, ma anche le impiegate, gli agenti farmaceutici o i formatori senior (magari dovrebbero anche spiegare come avere esperienze lavorative da senior a 35 anni!). Alcuni annunci sono assolutamente esilaranti, in quanto richiedono esperienze che sono in totale contraddizione con il limite di età, a meno che il candidato non abbia cominciato in fasce a svolgere quelle mansioni.

 

Questi vincoli sbandierati alla luce del sole sono oltretutto anche fuorilegge. Esiste infatti un Decreto Legislativo del 9 luglio 2003, n.216 “Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.187 del 13 agosto 2003 che all’articolo 3 recita:

“Il principio di parità di trattamento senza distinzione di età si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato con specifico riferimento alle seguenti aree: accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione…”

 

Insomma è illegittimo discriminare in base all’età e mettere un limite nelle offerte di lavoro, ma lo fanno quasi tutti, aziende multinazionali o piccole società, agenzie per il lavoro e grandi società di “head hunting”. Naturalmente non esiste nessun garante o figura che faccia rispettare questa legge dello Stato.

Alcuni mesi fa il Senato della Repubblica ha bandito un concorso per l’assunzione di personale impiegatizio. Tale concorso, in barba alle leggi vigenti, conteneva il limite di età fissato tra i 18 ed i 40 anni.

 

È chiaro che non basta togliere una riga con scritto “età compresa tra x ed y” per eliminare il problema, ma riuscire a far rispettare le leggi sarebbe già un buon punto di partenza per arrivare a considerare il lavoratore over 40, sia uomo che donna, ancora un protagonista attivo.

Oltretutto, paradosso nel paradosso, in Italia come in tutti i paesi industrializzati, la lunghezza del periodo scolastico formativo anche per le posizioni medie, si prolunga ormai fino quasi ai trent’anni (laurea, + master + stage), in presenza di una dichiarata obsolescenza professionale e conseguente rischio licenziamento, che si presenta non appena si toccano i 40!

 

In questo deserto sociale, le uniche forme di assistenza vengono da organizzazioni di volontariato, spesso costituite da persone che hanno vissuto questo dramma e che affrontano in prima istanza questo problema. Fino a quando le istituzioni continueranno a far finta di niente?

 

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COMUNICAZIONE E TERREMOTI

 

Da: Articolo 21

http://www.articolo21.org

 

14 novembre 2014

di Franco Del Campo

 

E’ tutta colpa della comunicazione, e forse addirittura di un frettoloso comunicato stampa, se il processo sul terremoto dell’Aquila è diventato un pasticcio tanto doloroso quanto inestricabile.

Non si tratta soltanto del giudizio rovesciato rispetto al primo grado, ma della materia stessa del processo, che qualcuno ha letto come un processo a scienziati che non erano stati in grado di prevedere un terremoto, fenomeno che (notoriamente) la scienza attuale non è in grado di prevedere. Questa parodia interpretativa si è diffusa anche nella comunità scientifica internazionale, che ha considerato l’Italia ferma al processo contro Galileo Galilei, condannato per eresia per aver sostenuto, non senza sarcasmo, la supremazia del sistema copernicano rispetto a quello tolemaico.

 

Come si possono processare degli scienziati per non aver previsto qualcosa di imprevedibile? Non si può. Il processo celebrato a l’Aquila, sul terremoto che ha distrutto la città il 6 aprile 2009 e ha fatto 309 vittime, ha infatti un segno esattamente opposto.

Se un terremoto non si può prevedere non si può nemmeno dire che “non” ci sarà, come invece, con una certa ambiguità comunicativa si è fatto. L’origine del pasticcio, che ha avuto conseguenze catastrofiche, sta nell’intreccio oscuro, malato e tanto frequente, tra politica e comunicazione, alla voglia pazza di utilizzare ai propri fini propagandistici la credibilità di scienziati autorevoli, per indirizzare l’opinione pubblica. Nella primavera del 2009 l’Aquila tremava da mesi dentro uno sciame sismico che sembrava interminabile.

 

Un tecnico, Giampaolo Giuliani, recuperando una vecchia teoria basata sul gas radon, che la comunità scientifica considera del tutto infondata, aveva lanciato l’allarme su un’imminente scossa devastante, innescando ulteriore ansia e sconcerto nella popolazione.

Ma il governo di allora (come tutti i governi) era aprioristicamente ostile a qualsiasi messaggio che potesse sollevare inquietudine perché dovevamo vivere nella migliore delle Italie possibili.

Ecco, allora, che scatta una poderosa e abile operazione comunicativa, che per essere più forte e credibile, si traveste di “scientificità”.

Per demolire i messaggi ansiogeni del tecnico Giuliani, sui quali i media si gettavano come cani affamati, l’allora responsabile della potentissima Protezione Civile, Guido Bertolaso, e il suo vice, Bernardo De Bernardis (l’unico condannato, anche in secondo grado, a due anni e la non menzione) escogitano una mossa geniale: convocano in fretta e furia una riunione di altissimo livello, chiamando eminenti scienziati e lo stesso sindaco della città.

 

La riunione, alla quale gli scienziati si presentano con una copiosa documentazione, dura un’oretta e viene chiusa in fretta perché De Bernardis deve presentare ai mass media un comunicato stampa del tutto tranquillizzante.

Missione compiuta. Purtroppo, pochi giorni dopo arrivò davvero la scossa devastante e non pochi aquilani, tranquillizzati dalla potenza comunicativa del governo, restarono in casa anche dopo la prima scossa restando uccisi in quella successiva.

 

Il “mandante” di quella clamorosa operazione comunicativa ormai è quasi dimenticato; i suoi esecutori forse saranno condannati; ma quale è stato il ruolo degli scienziati, assolti perché “il fatto non sussiste”? Naturalmente sono “innocenti”, ma rischiano di aver tradito il loro ruolo, di essere stati distratti e superficiali sul piano della comunicazione, perché è materia che non li riguarda, dimenticando che Galileo Galilei, “il maestro di color che sanno” nella scienza moderna, fu anche e forse soprattutto un formidabile comunicatore, capace di diffondere e divulgare risultati e metodo della nuova scienza. E forse proprio per questo fu condannato dal Sant’Uffizio.

 

Questi autorevoli scienziati si sono dimenticati di controllare se le loro parole venivano deformate da chi voleva strumentalizzarli e piegarli alla propria opinione (la Doxa è il contrario della certezza scientifica).

Adesso sono stati assolti, ma forse (senza la minaccia di torture, come avvenne al vecchio Galilei) si sono distratti o piegati alle lusinghe del potere ed hanno abiurato al rigore del metodo scientifico e all’obbligo della sospensione del giudizio in assenza di prove e dimostrazioni adeguate e condivise.

 

E così, il rapporto tra politica e scienza resta faticoso e a tratti pericoloso.

 

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SCHEDE DI RISCHIO DA SOVRACCARICO BIOMECCANICO INAIL

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

12 novembre 2014

 

L’INAIL ha presentato il secondo volume relativo alle schede di rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nei comparti della piccola industria, dell’artigianato e dell’agricoltura. Le nuove 60 schede e i dati sulle malattie professionali.

 

Che il rischio da sovraccarico biomeccanico nei luoghi di lavoro e le patologie correlate siano in costante aumento, almeno a livello di denunce, è un dato di fatto confermato dai vari monitoraggi condotti in Italia in questi anni. Era indubbio, dunque, che il primo volume INAIL del 2012 della monografia dal titolo “Schede di rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nei comparti della piccola industria, dell’artigianato e dell’agricoltura” creasse un grande interesse nel mondo del lavoro e portasse a una seconda edizione con nuove analisi su 60 diverse attività non analizzate nel primo volume.

 

Il secondo volume, sempre intitolato “Schede di rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nei comparti della piccola industria, dell’artigianato e dell’agricoltura” nasce dunque per continuare il lavoro di supporto nella gestione del rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nella piccola industria, nell’agricoltura e nell’artigianato: tutti settori caratterizzati da una innumerevole varietà di compiti lavorativi, ciascuno con proprie modalità e tempistiche di attuazione.

Un supporto progettato per i vari soggetti che operano nel campo della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, primi fra tutti coloro che in ambito aziendale sono responsabili o comunque coinvolti nei processi di analisi e gestione dei rischi e in particolare di quello da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori, ma anche consulenti e professionisti della sicurezza a cui interessa un approfondimento della tematica.

Per questi soggetti le schede rappresentano oggi anche uno strumento consultabile ai fini della redazione della valutazione dei rischi secondo le procedure standardizzate di cui al Decreto Interministeriale del 30 novembre 2012.

Alle cento schede della prima pubblicazione, se ne aggiungono dunque altre 60, con riferimento alle attività esaminate e valutate dai tecnici della Contarp dell’INAIL, a seguito di denunce di Malattia Professionale pervenute all’Istituto o di approfondimenti tematici e studi di settore. E a nuove informazioni tecniche corrispondono anche nuovi apporti professionali: a questo secondo volume hanno collaborato anche professionisti delle Direzioni regionali INAIL del Friuli Venezia Giulia e dell’Umbria.

Per ciascun compito analizzato è stata elaborata una scheda di rischio sintetica, nella quale oltre alla descrizione del compito, con l’indicazione degli eventuali macchinari/attrezzature in uso, viene fornita una stima del rischio da sovraccarico biomeccanico per l’arto superiore destro e quello sinistro. Il metodo valutativo applicato è la Check-list OCRA che, oltre ad essere validato a livello internazionale, ha il merito di considerare tutti i fattori correlabili al sovraccarico biomeccanico degli arti superiori evidenziati dalla letteratura di settore. Per ciascun compito vengono ipotizzati e valutati differenti scenari lavorativi, dipendenti dalle tempistiche di adibizione giornaliera e da altre caratteristiche proprie di ciascun compito, e proposti alcuni fra i possibili interventi di prevenzione e protezione, di rapida e semplice attuazione.

Si sottolinea anche che i risultati valutativi stimati sono riferibili alle specifiche caratteristiche (lay-out, macchinari/attrezzature utilizzate, organizzazione del lavoro, ciclo di lavoro, ecc.) descritte per ciascun compito; ne consegue che, per un corretto utilizzo dei dati illustrati nelle schede, sarà necessario tener conto delle specificità di ogni singola realtà lavorativa.

Inoltre si segnala che l’uso di forza e l’assunzione di posture incongrue con gli arti superiori rappresentano i fattori di maggior criticità, da valutare in maniera accurata, contestualmente agli altri fattori coinvolti (frequenza di azione, fattori complementari, tempi di recupero e durata dell’attività).

Questa seconda edizione del progetto dell’INAIL ci permette poi di aggiornare i dati presentati due anni fa, per il primo volume, in merito alle Malattie Professionali con particolare riferimento alle patologie da sovraccarico biomeccanico.

I dati in possesso dell’INAIL e relativi al quinquennio 2008 – 2012 mostrano, a livello nazionale, un incremento nel numero di denunce di Malattia Professionale pervenute all’Istituto in tutte e tre le Gestioni (Agricoltura, Industria e Servizi e Dipendenti Conto Stato):

Gestione Agricoltura: le Malattie Professionali denunciate risultano essere più che quadruplicate (da 1.832 a 7.748): con riferimento ai dati riportati di due anni fa si passa da 6.390 del 2010 a 7.748 nel 2012;

Gestione Industria e Servizi: le Malattie Professionali denunciate sono incrementate del 35% (da 27.932 a 37.801): nel 2010 erano 35.713 e nel 2012 37.801;

Gestione Dipendenti Conto Stato: le Malattie Professionali denunciate risultano essere aumentate di circa il 30% (da 356 a 456): 2010 (424), 2012 (456).

Si ha dunque un aumento complessivo di circa il 53% nel numero di Malattie Professionali denunciate, passate da circa 30.000 nel 2008 ad oltre 46.000 nel 2012.

A giustificare questo incremento il documento ricorda (al di là del fenomeno di emersione delle malattie cosiddette “perdute”) che l’aumento delle Malattie Professionali osteo-articolari e muscolo-tendinee (dovute prevalentemente a sovraccarico biomeccanico) dipendono anche dall’entrata in vigore del Decreto Ministeriale del 9 aprile 2008 (“Nuove tabelle delle malattie professionali nell’Industria e nell’Agricoltura”) che ha inserito tali patologie nell’elenco delle tecnopatie che godono della “presunzione legale d’origine”.

Concludiamo sottolineando che nel quinquennio considerato (2008 – 2012), le malattie professionali del sistema osteo-articolare da sovraccarico biomeccanico denunciate presentano un andamento crescente rispetto al numero complessivo di Malattie Professionali denunciate, passando dal 41% nel 2008 (oltre 12.400), al 65% nel 2012 (circa 30.000).

Il fenomeno è particolarmente evidente nella Gestione Agricoltura dove le denunce aumentano di circa 6 volte (da 1.041 a 6.277). Nella Gestione Industria e Servizi si passa da 11.284 a 23.547 Malattie Professionali, mentre nella Gestione Dipendenti Conto Stato, da 101 a 234.

Si ricorda infine che in merito alla Gestione “Industria e Servizi”, i settori di attività economica cui sono riconducibili le Malattie Professionali del sistema osteo-articolare da sovraccarico biomeccanico denunciate nel 2012 e riconosciute dall’INAIL, sono rappresentati essenzialmente da quello delle Costruzioni e del Commercio, oltre che, seppure in misura minore, dal settore della Sanità e assistenza sociale, dalle Industrie alimentari, dai Trasporti, dagli altri servizi pubblici, sociali, personali, dal Settore metallurgico, da quello Tessile e altri settori riportati nella tabella 5 del documento INAIL.

Il documento dell’INAIL “Schede di rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nei comparti della piccola industria, dell’artigianato e dell’agricoltura” volume II, edizione 2014 è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_154609.pdf

 

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IL REGISTRO DEI CONTROLLI ANTINCENDIO E LA NORMATIVA VIGENTE

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

13 novembre 2014

 

La risposta ad alcuni quesiti in merito al registro antincendio, con riferimento all’articolo 6 del D.P.R.151/11. Per i luoghi di lavoro soggetti all’applicazione del D.Lgs.81/08 non è necessario adottare il registro.

 

Il tema del registro antincendio, dei soggetti obbligati ad averlo e compilarlo ha sempre suscitato molto interesse.

Ed è per questo motivo che (con riferimento anche alla recente bozza del futuro Testo Unico sulla Prevenzione Incendi, che ha tra i suoi obiettivi anche la semplificazione e riduzione degli oneri di prevenzione incendi) abbiamo posto alcune domande sul registro e sugli obblighi derivanti all’ingegner Claudio Giacalone, Dirigente addetto del Comando Provinciale Vigili del Fuoco di Milano, di cui riportiamo brevemente la risposta.

 

Secondo la previgente normativa del decreto del Presidente della Repubblica 12 gennaio 1998, n.37 (Regolamento recante disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi, a norma dell’articolo 20, comma 8, della Legge 15 marzo 1997, n.59), tutte le attività soggette ai controlli da parte dei Vigili del fuoco avevano l’obbligo di tenere il registro dei controlli antincendio.

Il Decreto del Presidente della Repubblica 1 agosto 2011, n.151 (Regolamento recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi, a norma dell’articolo 49, comma 4-quater, del Decreto Legge 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 luglio 2010, n.122) ha abrogato il D.P.R.37/98.

Pertanto la tenuta del registro dei controlli antincendio, per le attività soggette ai controlli di prevenzione incendi, è oggi regolamentata dall’articolo 6 del D.P.R.151/11, in maniera diversa rispetto a quanto precedentemente stabilito dal D.P.R.37/98.

Secondo l’articolo 6 del D.P.R.151/11, gli enti e i privati responsabili di attività soggette ai controlli da parte dei Vigili del Fuoco, non soggette alla disciplina del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n.81, hanno l’obbligo di annotare in un apposito registro i controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione effettuati sugli impianti e attrezzature antincendio, nonché l’informazione ai lavoratori.

Si evince pertanto che l’obbligo di adottare il registro dei controlli antincendio è solo a carico dei titolari di attività che non rappresentano luoghi di lavoro quali, ad esempio, edifici civili, autorimesse, impianti per la produzione di calore condominiali.

Invece, per i luoghi di lavoro, soggetti all’applicazione del D.Lgs.81/08 non è necessario adottare il registro dei controlli, in quanto la disciplina dei controlli è già regolamentata dallo stesso D.Lgs.81/08.

Si riporta di seguito il testo dell’articolo 6, comma 2 del D.P.R.151/11:

“I controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione [su sistemi, dispositivi, attrezzature, ecc.] e l’informazione [sui rischi di incendio] di cui al comma 1, devono essere annotati in un apposito registro a cura dei responsabili dell’attività. Tale registro deve essere mantenuto aggiornato e reso disponibile ai fini dei controlli di competenza del Comando”.

 

Il D.P.R.151/11 “Regolamento recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi, a norma dell’articolo 49, comma 4-quater, del Decreto Legge 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 luglio 2010, n.122” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.vigilfuoco.it/aspx/ReturnDocument.aspx?IdDocumento=4993

 

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APPLICAZIONE DELLE NORME DI PREVENZIONE AI TERZI ESPOSTI AL RISCHIO

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

17 novembre 2014

 

di Gerardo Porreca

 

Il datore di lavoro risponde del rischio aziendale al quale possono essere esposti sia i lavoratori dipendenti o equiparati che terzi estranei all’ambito imprenditoriale e di un loro eventuale infortunio se connesso con il rischio medesimo.

E’ un principio abbastanza consolidato quello che emerge da questa sentenza della Corte di Cassazione alla quale è stato sottoposto il caso di un lavoratore che si è infortunato in una azienda, pur non essendo dipendente dell’azienda medesima, mentre utilizzava una macchina non rispondente alle disposizioni di legge in materia di sicurezza sul lavoro. Anche i soggetti terzi, ha sostenuto la Corte suprema, devono ritenersi destinatari delle norme di sicurezza se sono esposti a pericoli derivanti dall’attività lavorativa svolta in una azienda in quanto sussiste il cosiddetto “rischio aziendale” connesso all’ambiente.

IL CASO E IL RICORSO IN CASSAZIONE

 

La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale nei confronti del datore di lavoro di una azienda agricola, sentenza appellata dall’imputato, ha sostituita la pena della detenzione allo stesso inflitta in quella di euro 418 disponendo la revoca della sospensione condizionale della pena. L’imputato era stato tratto a giudizio per rispondere del reato di lesioni colpose gravissime, aggravate dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in danno di un dipendente dell’azienda medesima. Questi, mentre all’interno dell’azienda agricola stava lavorando alla macchina “pompa per mosti”, spingendo con le mani l’uva dallo scivolo di metallo verso la tramoggia della pompa, veniva afferrato dall’organo lavoratore della pompa (coclea) al braccio destro, riportando gravi lesioni consistite in una frattura all’avambraccio destro con ampia ferita lacero contusa, con conseguente amputazione dello stesso avambraccio. La macchina all’atto dell’infortunio era risultata priva della griglia di protezione e, al fine di permetterne il funzionamento in assenza di tale dispositivo di sicurezza, erano risultate inserite due chiavi supplementari (non solidali ad alcuna parte della macchina) atte ad escludere i dispositivi elettrici di sicurezza della macchina.

 

Dagli atti era emerso che la macchina “pompa per mosti” era stata installata nel piazzale dell’azienda agricola da due dipendenti della stessa sin dalla mattina per le operazioni di vendemmia e che il lavoratore infortunato, giunto in azienda intorno alle ore 16.00, aveva chiesto se vi fosse bisogno di aiuto per la vendemmia iniziando subito dopo ad operare alla pompa e spingendo con le mani l’uva dallo scivolo di metallo verso la tramoggia.

Il giudice di primo grado, disattese le prospettazioni difensive relative alla mancata qualifica di “lavoratore” dell’infortunato ed alla delega di funzioni organizzative che il datore di lavoro ha sostenuto di avere assegnata al preposto, dichiarava quest’ultimo colpevole del reato ascrittogli. La Corte territoriale ha successivamente confermato il giudizio di responsabilità già espresso dal Tribunale.

Avverso la decisione della Corte di Appello il datore di lavoro ha proposto ricorso a mezzo del proprio difensore deducendo la violazione di legge in relazione al principio di effettività (articolo 2 del D.Lgs.242/96 e articolo 299 del D.Lgs.81/08) e la manifesta illogicità della motivazione.

LE DECISIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Il ricorso è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione infondato e quindi rigettato. La suprema Corte in merito alla tesi difensiva secondo la quale l’infortunato era stato assunto da soggetti diversi da lui e nella sua totale inconsapevolezza, ha fatto osservare sul punto che la Corte territoriale, poiché nessuno dei lavoratori presenti era risultato titolare di delega all’assunzione anche temporanea di lavoratori e tanto meno di autonomia di spesa al fine di erogare il dovuto corrispettivo, aveva ritenuto che l’imputato non solo fosse a conoscenza della presenza del lavoratore ma che avesse necessariamente autorizzato lo svolgimento della sua attività lavorativa.

 

La Corte di Cassazione ha altresì osservato che “secondo un consolidato orientamento di questa Corte di legittimità, anche i terzi, quando si trovano esposti ai rischi di un’attività lavorativa, devono ritenersi destinatari delle norme di prevenzione per cui non rileva che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o, addirittura, una persona estranea all’ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale con l’accertata violazione. Sussiste, pertanto, un cosiddetto rischio aziendale connesso all’ambiente, che deve essere coperto da chi organizza il lavoro”.

Secondo quanto sostenuto dal ricorrente, ha ricordato la Sezione IV, nulla gli era da addebitare in quanto aveva affidato ai suoi dipendenti una macchina perfettamente funzionante e sicura né lo stesso era a conoscenza che la macchina venisse fatta funzionare senza la cautela imposta. Nello specifico era stato invece accertato che la macchina stessa utilizzata dal lavoratore era priva della griglia di protezione e che, al fine di permetterne il funzionamento, venivano utilizzate delle chiavi supplementari atte ad escludere i dispositivi di sicurezza, circostanza che è risultata determinante nella causazione dell’infortunio.

Nel caso sottoposto al suo esame, ha fatto presente la Corte di Cassazione, non può porsi in dubbio che l’imputato, per il ruolo rivestito di datore di lavoro, avesse una posizione di garanzia che gli imponeva di adottare, o controllare che fossero adottate le cautele la cui mancanza ha determinato l’evento. “In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro”, ha proseguito la Sezione IV, “la posizione di garanzia del datore di lavoro, è inderogabile quanto ai doveri di vigilanza e controllo per la tutela della sicurezza, in conseguenza del principio di effettività, il quale rende riferibile l’inosservanza alle norme precauzionali a chi è munito dei poteri di gestione e di spesa”

Nel caso in esame l’imputato aveva sostenuto che tali poteri erano stati trasferiti ad altro soggetto avente la qualifica di preposto ma l’attribuzione di tali poteri, secondo la suprema Corte, non aveva in effetti determinata la assunzione da parte dello stesso della qualità di datore di lavoro, né in capo ad esso sono stati trasferiti i relativi obblighi di sicurezza. A tal fine infatti, ha aggiunto la Sezione IV, sarebbe stato necessario conferirgli una specifica “delega” che, nel caso di specie, non risulta provata. “In materia di infortuni sul lavoro”, secondo quanto stabilito dalla Corte di legittimità ancor prima della codificazione prevista dall’articolo 16 del D.Lgs.81/08, “sebbene gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al datore di lavoro, tuttavia, il relativo atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo e deve investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo comunque l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive”.

 

Nel caso in questione, ha concluso la suprema Corte, nessuna inequivoca delega di funzioni antinfortunistiche è risultata essere stata affidata né l’imputato ha documentato che fosse stata conferita una delega di fatto non avendolo efficacemente documentato. Di conseguenza l’imputato, quale datore di lavoro, aveva intatta la sua posizione di garanzia al momento dei fatti, ai sensi degli articoli 4 e 7 del D.Lgs.626/94, per cui era comunque tenuto a sorvegliare circa le attività che si svolgevano presso il luogo di lavoro, quali quelle avvenute in occasione dell’incidente a parte il fatto che le omissioni relative alle dotazioni di sicurezza erano riferite a presidi da attuare in epoca precedente al giorno dell’infortunio e, quindi, rientranti nella sfera di controllo del datore di lavoro stesso.

La Sentenza n.36438 del 1 settembre 2014 della Sezione IV della Cassazione Penale “Il datore di lavoro risponde del rischio aziendale al quale possono essere esposti sia i lavoratori dipendenti o ad essi equiparati che terzi estranei all’ambito imprenditoriale e di un eventuale loro infortunio se connesso con il rischio medesimo” è scaricabile all’indirizzo:

http://www.avvocatomeazza.com/wp-content/uploads/2014/09/Cass.-pen.-sez.-IV-1-settembre-2014-n.-36438.pdf

 

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GLI INTERVENTI DI MANUTENZIONE SUI CARRELLI ELEVATORI

 

Da: PuntoSicuro

http://www.puntosicuro.it

18 novembre 2014

 

La manutenzione dei carrelli elevatori è necessaria per garantirne nel tempo efficienza e sicurezza. I controlli preliminari e la manutenzione delle parti costitutive del carrello: gruppo di sollevamento, telaio, sistema di trazione, sterzo e freni.

 

Nei carrelli elevatori e negli apparecchi di sollevamento, anche per ridurre la possibilità di incidenti, è molto importante che sia svolta una regolare manutenzione per garantire sempre, oltre che l’efficienza, la sicurezza di funzionamento dell’attrezzatura. Interventi di manutenzione che possono essere ordinari (programmati ed eseguiti attenendosi alle indicazioni di legge e del costruttore, alle norme di buona tecnica e all’esperienza del manutentore) o straordinari (anomalie, rotture, eventi accidentali, ecc.) e che devono essere eseguiti da personale adeguatamente formato e addestrato.

Per parlare della manutenzione dei carrelli elevatori riprendiamo la presentazione della pubblicazione Inail “Movimentazione merci pericolose. Carico, scarico, facchinaggio di merci e materiali. Manuale sulla sicurezza destinato agli addetti al carico, scarico, facchinaggio di merci e materiali pericolosi”, realizzata dalla Direzione Centrale Prevenzione dell’INAIL.

Se anche per i carrelli elevatori, è necessaria l’esecuzione di interventi di manutenzione regolari da parte di personale qualificato, gli utilizzatori dei carrelli devono comunque eseguire una serie di verifiche quotidiane preliminari, segnalando tempestivamente ai propri responsabili eventuali anomalie o guasti che potrebbero influire sulla sicurezza e/o sulla corretta funzionalità dei carrelli. Tali controlli preliminari possono, ad esempio, servire per verificare il buono stato delle gomme, il posizionamento e lo stato delle forche, l’efficienza dell’impianto frenante e dei dispositivi di segnalazione, l’assenza di perdite idrauliche, ecc..

Tuttavia con le periodicità previste dalla normativa vigente, dal costruttore o dalle norme di buona tecnica, vanno programmate e registrate le manutenzioni delle parti costitutive del carrello, manutenzioni che il documento analizza in dettaglio.

GRUPPO DI SOLLEVAMENTO

Il documento ricorda che le catene metalliche del gruppo di sollevamento vanno verificate almeno ogni tre mesi o alle scadenze previste dal costruttore; l’esito della verifica deve essere registrato, così come deve essere annotata la loro eventuale sostituzione. Le catene non vanno mai lavate, bensì vanno spolverate, utilizzando eventualmente aria compressa (proteggendosi occhi e udito), e lubrificate con prodotti specifici per catene. La sostituzione è da prevedersi quando si riscontra un allungamento superiore al 5% per le singole maglie o per la catena nel suo complesso, o quando vi sono maglie deformate, o che presentano principi di rottura. Le catene di ricambio vanno acquistate attendendosi alle specifiche del costruttore.

In particolare le forche vanno verificate controllando:

  • allineamento orizzontale delle punte, che non deve superare il 3% della lunghezza della forca;
  • spessore del tallone, che non deve essere inferiore al 90% dello spessore massimo della forca;
  • angolo della forca, che non deve superare i 90°;
  • presenza di cricche, deformazioni, ecc..

Il documento riporta poi anche indicazioni relative a:

  • piastra portaforche e griglia reggicarico (vanno verificate, alla ricerca di deformazioni, principi di rottura, anomalie di funzionamento, ecc.);
  • sistema oleodinamico che comanda tutti i movimenti del gruppo di sollevamento (sollevamento, brandeggio, attrezzature speciali);
  • livello dell’olio idraulico e filtri;
  • eventuali accessori (pinze, traslatori, ribaltatori);
  • carter di protezione e montanti.

STERZO E FRENI

Sono elementi vitali del carrello elevatore: anomalie di funzionamento o, addirittura, guasti possono avere conseguenze pesantissime. E’ per questo che vanno tenuti costantemente sotto controllo da parte dell’operatore, che segnalerà prontamente ai propri superiori eventuali difetti riscontrati.

Durante le operazioni di manutenzione programmata, riguardo allo sterzo andranno controllati:

  • giochi della scatola di guida;
  • precisione degli accoppiamenti;
  • gioco dei perni;
  • stato dei cuscinetti;
  • per lo sterzo a catena, usura della catena e allungamenti delle maglie (recuperando eventuali giochi);
  • per lo sterzo idraulico, stato delle tubazioni, assenza di trafilamenti.

Il documento si sofferma poi su altri elementi di verifica relativi ai pneumatici (bisogna verificare l’usura, l’assenza di tagli e la corretta pressione di gonfiaggio) e ai freni.

SISTEMA DI TRAZIONE

Per tutti i carrelli la batteria è un elemento il cui corretto funzionamento influisce sulle prestazioni e sull’efficienza del mezzo. In particolare nei carrelli endotermici (nei motori endotermici l’energia termica è prodotta mediante combustione di sostanze liquide o gassose), la batteria serve per le fasi di avviamento e bisogna periodicamente verificarne il livello del liquido, la chiusura dei tappi, il serraggio e la pulizia dei morsetti dei conduttori (è buona cosa proteggerli con vasellina) e che la batteria sia fissata correttamente; in questi frangenti, bisogna prestare attenzione a non mettere in contatto accidentalmente i due poli con materiali conduttori (corto circuito).

 

Altre indicazioni per i carrelli endotermici:

  • è necessario controllare la qualità dei gas di scarico, il livello del liquido del radiatore e il filtro del carburante;
  • per i carrelli a gas, vanno controllati con attenzione tubi e raccordi e i sistemi di fissaggio delle bombole, evitando assolutamente di lubrificarli con grasso;
  • i recipienti fissi e mobili di GPL devono essere esaminati periodicamente, per accertare che non presentino difetti (ammaccature, abrasioni, tagli, guasti di valvole o sistemi di misurazione, corpi estranei nelle valvole di sicurezza, guasto o mancanza del tappo della valvola di sicurezza, segni di perdite sulle valvole e sui raccordi filettati);
  • l’olio del motore va verificato regolarmente e sostituito (così come il filtro)
  • i filtri dell’aria vanno puliti periodicamente, sostituiti se intasati e adeguati al cambio di stagione (estate/inverno);
  • anche il sistema di raffreddamento è da verificare con attenzione, poiché esso influisce sulla durata e sulle prestazioni del carrello; periodicamente bisogna quindi verificare o sostituire il liquido refrigerante, pulire la parte di scambio termico dei radiatori e verificare il serraggio dei manicotti del liquido di raffreddamento.

 

Nei carrelli a trazione elettrica, occorre periodicamente rabboccare l’elettrolita, senza però riempire troppo le batterie; in queste fasi, occorre utilizzare i DPI ( occhiali/visiera e guanti).

Le aree di carica devono essere ben ventilate e, al loro interno, è vietato fumare e utilizzare fiamme libere (a causa della presenza di idrogeno esplosivo generato dalla carica delle batterie. Anche qui, è importante verificare:

  • serraggio e pulizia dei morsetti dei conduttori;
  • fissaggio della batteria;
  • presenza e integrità del materiale isolante a protezione del cofano;
  • sistema di blocco del cofano allo chassis, facendo attenzione a non cortocircuitare i due poli con materiali conduttori.

Se occorre sostituire il pacco batterie, questo dovrà avere massa, tensioni e dimensioni compatibili con quanto indicato dal costruttore. Per le fasi di rimozione e introduzione del pacco batterie, vanno impiegati utensili isolati e il sollevamento va fatto con un’apparecchiatura idonea.

TELAIO

Nei carrelli una corretta e costante manutenzione del telaio è garanzia di sicurezza (oltre che di funzionalità); anche la pulizia del mezzo e, in particolare, dell’abitacolo, è indice di attenzione al mezzo da parte di chi lo utilizza abitualmente.

Bisogna quindi verificare periodicamente:

  • punti di aggancio della cabina allo chassis;
  • punti di sollevamento del carrello;
  • stato di vetrature, portiere, finestrini, pedali, sistemi di comando;
  • protezione del tettuccio;
  • efficienza dei dispositivi di segnalazione/illuminazione;
  • funzionalità dei tergicristalli e stato delle spazzole.

 

Il documento ricorda che eventuali modifiche alle caratteristiche originali del carrello e, in particolare, quelle che influiscono sulla portata o sulla sicurezza del carrello, devono preventivamente essere autorizzate dal costruttore; una volta realizzate vanno aggiornate o sostituite le targhe di identificazione e di istruzione.

Concludiamo sottolineando l’importanza della registrazione dei vari interventi di manutenzione. In questo modo è possibile ripercorrere la vita di una macchina e, analizzando quali siano i guasti più frequenti, attuare le necessarie misure migliorative che permettono non solo di diminuire i tempi di fermo ma, soprattutto, di mantenere elevati standard di sicurezza ed eventualmente ridefinire gli intervalli di manutenzione.

Il documento “Movimentazione merci pericolose. Carico, scarico, facchinaggio di merci e materiali. Manuale sulla sicurezza destinato agli addetti al carico, scarico, facchinaggio di merci e materiali pericolosi”, pubblicazione realizzata dalla Direzione Centrale Prevenzione dell’INAIL è scaricabile all’indirizzo:

http://www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_portstg_103512.pdf

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