ACCORDO ILVA : “SOLUZIONE” O “RINVIO” ?

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Le note che seguono sono personali ma all’interno di una discussione in corso in Medicina Democratica in particolare nel gruppo “lavoro” che riguarda il tema, sempre al centro della nostra iniziativa, del rapporto tra tutela del lavoro e sicurezza da un lato, ambiente salubre e tutela della salute dall’altro. Dall’origine di Medicina Democratica questo tema ha percorso il movimento e abbiamo sempre cercato di sostenere ovunque la necessità di una visione e di un intervento unitario sulla base di vertenze in grado di unire l’iniziativa dei lavoratori e delle popolazioni esposte. Ilva rappresenta un conflitto che interessa anche questi attori sociali, finora a tutto beneficio delle proprietà degli impianti che si sono succedute nel tempo.
Al di là dei contenuti e delle critiche all’accordo occorre capire se è possibile e come costruire un’azione unitaria lavoratori-popolazione contro gli inquinatori per affermare diritto ad un lavoro sicuro e ambiente salubre.

L’Accordo raggiunto tra i maggiori sindacati, Arcelor Mittal e Governo per la cessione degli impianti ILVA di Taranto e Genova in particolare, viene presentato come una vittoria per il mantenimento dei livelli occupazionali (anche se 2.822 lavoratori rimangono in un limbo e si spinge per la “incentivazione all’esodo”).
Dalle notizie stampa gli aspetti ambientali risultano secondari (e questo ha giustamente riacceso la protesta dei residenti, delle associazioni e delle organizzazioni sindacali e dei lavoratori che insistono da anni sulla centralità e priorità della salute rispetto alle “esigente produttive”).
Sempre mettendo insieme le notizie (non si dispone di alcun documento integrale) vi sarebbero comunque delle ricadute positive in termini ambientali:

– il Ministero dell’Ambiente ha “certificato” che i lavori di “ambientalizzazione” (la realizzazione di prescrizioni che avrebbero già dovuto essere completate entro il marzo del 2016 e che i decreti “Salva Ilva” hanno posposto dal 2012);

– questi lavori saranno “accelerati” concludendosi entro il 2020 anziché entro il 2023;

– la soglia produttiva rimarrà entro i 6.000.000 t/anno di acciaio (per ora);

– il Governo starà con il “fiato sul collo” sui nuovi gestori (tradotto : farà quello che avrebbe dovuto fare negli ultimi decenni : controllare il rispetto delle norme e sanzionare le violazioni anche fermando la produzione) anche se nel contempo viene conferma la “immunità” penale dei subentranti.

Quindi i nodi ambientali sono tutti caratterizzati da un rinvio temporale e da (auto)limitazioni la cui consistenza non è possibile valutare pienamente oggi, in ogni caso non si tiene conto di alcuni aspetti:

– non è affatto scontato che la realizzazione (tardiva) degli interventi previsti dalle autorizzazioni del 2011 e del 2012 in particolare nell’area a caldo siano sufficienti per una drastica riduzione dell’inquinamento (ed in particolari delle emissioni dalla cokeria, dall’impianto di agglomerazione e dagli altoforni) anche perché (come segnalato a suo tempo anche da Medicina Democratica) quegli interventi erano parziali. note medicina democratica modifica AIA ILVA
(Con gli stessi intenti abbiamo difeso l’operato della magistratura dal sequestro dell’agosto 2012 nota mail perizia ilva fino a costituirci parte civile nel processo in corso).

– gli obiettivi richiamati negli accordi sono quelli della cosiddetta “ambientalizzazione”, con una riduzione inferiore e con modalità diverse dalle altre proposte in campo che implicavano un cambio di paradigma “produttivo” più o meno accentuato (la “decarbonatazione” della Regione Puglia) la “riconversione” da parte delle realtà locali (le proposte legate a quest’ultima coinvolgevano anche importanti interventi sul tessuto produttivo di Taranto e non solo una difesa “a prescindere” o un abbandono totale delle attività ex Ilva);

– l’impegno del sindacato per il mantenimento dei posti di lavoro non comprende, ad oggi, un impegno analogo per la tutela dell’ambiente e della sicurezza dei lavoratori, devono essere i lavoratori e le loro rappresentanze ad essere “con il fiato sul collo” e pretendere il rispetto delle norme e continui miglioramenti dei luoghi di lavoro e la riduzione degli impatti ambientali. L’ “alibi” (o il ricatto) della difesa ad ogni costo dei posti di lavoro (di quei posti di lavoro) non c’è più, l’invito (e la sfida) è che i sindacati firmatari si attivino ora in modo rigoroso nella difesa ad oltranza della sicurezza nei posti di lavoro amplificando ogni iniziativa e denunciando ogni criticità anche all’esterno;

– se la migliore delle ipotesi sottesa agli accordi è la “ambientalizzazione” nulla viene messo in discussione (almeno !) sul superamento della tecnologia obsoleta della produzione di acciaio dal minerale di ferro : il sistema basato sull’uso di carbone/coke e gli altoforni è considerato superato da anni (es linee guida europee del 2001) rispetto a sistemi in cui la riduzione del ferro avviene direttamente in forni EAF (sistema DRI e altri).

Sul numero in stampa di Medicina Democratica è presente un testo scritto prima dell’accordo il cui contenuto è in gran parte valido, il testo è una versione ridotta di un documento che è parte della discussione nella nostra associazione, lo mettiamo a disposizione PAG 13 – 18 NOTE A MARGINE CALDIROLI riportando gli ultimi periodi.

Le proposte di riconversione più articolate (“Piano Taranto” e in misura meno dettagliata il “Position Paper 2018” di Peacelink) tentano di spostare il tema dagli impianti al territorio ovvero introducono una visione che vuole sfuggire dal vincolo assoluto degli impianti quali principali (e quasi uniche) fonti di occupazione (reddito) locale, prevedendo impieghi sostitutivi da un lato per le bonifiche (ci vorranno decenni) e dall’altro per una riconversione economica del territorio nel suo insieme.
Nella discussione focalizzata sulla questione della bontà o meno della gara di cessione degli impianti i lavoratori appaiono ostaggi del governo, della futura proprietà ma soprattutto di una prospettiva di limitati miglioramenti delle modalità produttive, in tempi indefiniti.
Tutto è centrato sulla fabbrica e il territorio è escluso dalla discussione nonostante l’evidenza che almeno un terzo dei lavoratori è nello stesso tempo un residente a Taranto e quindi vive direttamente entrambe le condizioni come pure sono noti gli effetti negativa sulla salute dei lavoratori.
La mancata messa in discussione delle modalità produttive e la richiesta di mantenere tutti i 14.000 posti di lavoro esclusivamente su quegli impianti (e l’indotto) rende oggettivamente impossibile un percorso di fuoriuscita dalla monocoltura industriale e una drastica riduzione degli impatti ambientali e sanitari.
Solo un percorso che veda confrontarsi lavoratori e residenti, la definizione di una vertenza comune complessiva da porre ai responsabili della situazione (proprietà e istituzioni) con un indirizzo finalizzato alla uscita della “dipendenza” assoluta del territorio dagli impianti, da un lato, la bonifica interna (comprensiva della progressiva riduzione degli impatti della “area a caldo” e introduzione di “nuove” – ma ben conosciute – tecnologie alternative a quelle attuali e quindi dismissione di parte degli impianti attuali) e la bonifica esterna (che necessitano di un notevole numero di lavoratori qualificati) risulta essere la proposta in grado di porre in primo piano la tutela della salute (dei cittadini e dei lavoratori) quale bene costituzionalmente protetto e indisponibile (a cui non si può rinunciare) e il diritto al lavoro (ad un lavoro migliore) e a un reddito dignitoso.
In caso contrario proseguirà il conflitto tra le parti ed in particolare quello tra lavoratori e cittadini, conflitto in cui entrambi i soggetti sono destinati alla sconfitta senza peraltro poter escludere la chiusura degli impianti per ulteriori violazioni delle normative ambientali e di sicurezza.

Marco Caldiroli

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