Intervento al convegno di Napoli del 19/01/2013 – Il lavoratore non idoneo rischia il posto di lavoro?

Ascolta con webReader

150_salute_lavoroL’art. 42 del D.Lgs 81/2008 prevede l’obbligo, da parte del datore di lavoro di ricollocare il lavoratore non idoneo in mansioni alternative, anche prevedendone il “declassamento” funzionale, ma mantenendo i livelli retributivi originali.

In realtà negli ultimi tempi uno dei sistemi (non il principale, ma nemmeno l’ultimo e, comunque, in continua crescita) con cui i padroni nostrani esercitano la più bieca repressione ed espulsione dai circuiti produttivi di lavoratori “meno” (meno in salute, meno allineati, meno padani, ecc.), utilizza lo strumento della inidoneità psicofisica alla mansione lavorativa.

Il fenomeno, ampiamente sottostimato rispetto alla realtà, risulta evidente nei servizi pubblici territoriali deputati alla vigilanza nei luoghi di lavoro in tema di salute e sicurezza: tali servizi, essendo destinatari dei ricorsi avverso i giudizi di idoneità/inidoneità emessi dai medici del lavoro delle aziende (medico competente), assistono alla progressiva crescita di casi di licenziamento selettivo (o, in subordine, di drastico ridimensionamento quali-quantitativo dell’attività lavorativa) a carico di lavoratrici e lavoratori che, a torto o a ragione, sono stati giudicati non idonei, o idonei con severe limitazioni, alle mansioni cui sono addetti.

A ragione, quando precarie condizioni di salute (non di rado derivanti proprio da pessime situazioni lavorative, caratterizzate da elevati rischi e da sovraccarico funzionale di svariati organi e apparati) determinano un’effettiva riduzione della capacità lavorativa, sempre più dissimulata da maestranze preoccupatissime delle possibili conseguenze derivanti dal suo riconoscimento e, quindi, costrette a lavorare anche in condizioni di salute che lo sconsiglierebbero.

A torto, quando limitazioni dell’idoneità lavorativa più o meno marcate (fino alla franca inidoneità) non trovano motivazione oggettive nello stato di salute del lavoratore e sono, quindi, pretestuosamente utilizzate come arma di ricatto ed espulsione messa in mano al datore di lavoro da medici più “compiacenti” che “competenti”, privi di scrupoli e di professionalità.

Il tutto in palese violazione dell’art. 42 del D.Lgs 81/2008 e successive modificazioni, che prevede l’obbligo, da parte del datore di lavoro di ricollocare il lavoratore non idoneo in mansioni alternative, anche prevedendone il “declassamento” funzionale, ma mantenendo i livelli retributivi originali.

Tali casi non sono più isolati e tendono sia ad accentuarsi quantitativamente, che ad aggravarsi sotto il profilo della scorrettezza, quando non della vera e propria malafede.

E questo fenomeno, segno della dipendenza funzionale, normativa e culturale del medico competente (non tutti, ma tanti) dal datore di lavoro, risulta accentuato dalla esasperata “concorrenza” (spesso palesemente sleale) tra professionisti in lizza per “accaparrarsi l’azienda ad ogni costo” compiacendo il proprio ufficiale pagatore (il datore di lavoro di cui sopra) e il centro erogatore di servizi sanitari e ambientali da cui dipende la propria attività. Un’evenienza quest’ultima sostenuta dalla ridotta autonomia del medico competente, a sua volta dovuta alla dipendenza economica diretta dal datore di lavoro (i cui condizionamenti si fanno sentire con notevole frequenza), contrariamente a quanto accade in molti paesi europei, dove il datore di lavoro contribuisce economicamente alla creazione e al mantenimento di un fondo gestito da parti sociali ed enti previdenziali preposti all’individuazione ed al successivo supporto dei medici competenti, più autonomi e indipendenti proprio in virtù di tale sistema.

Nel quadro generale sopra descritto assume particolare rilevanza la gestione in chiave repressiva delle idoneità lavorative di soggetti tenuti, in quanto destinati a specifiche mansioni, all’espletamento di test tossicologici tesi all’individuazione di dipendenza (ma anche di semplice consumo) da sostanze stupefacenti e psicotrope. Si tratta di recenti recepimenti di norme che prevedono l’esecuzione di esami di laboratorio in grado di “scovare” (parole di un medico competente) soggetti che hanno consumato, anche in date non vicine (è il caso della cannabis, che può persistere nelle urine del consumatore – anche occasionale – fino a tre settimane dopo il consumo) sostanze catalogate come “droghe”. Le mansioni soggette a tali controlli sono molto diffuse (mulettisti, gruisti, conducenti di mezzi con patente C e superiori, …) e l’impropria individuazione (non di rado volontaria) dei lavoratori da controllare ne allarga ulteriormente la platea.

La positività al test prevede l’avvio di un percorso “riabilitativo” (in un consumatore occasionale?) presso il SERT di zona, che può protrarsi anche oltre sei mesi, durante i quali il lavoratore è sospeso, senza retribuzione, dall’attività “a rischio”, per poi potervi rientrare a iter concluso positivamente. Oltre all’abuso evidente di chi non applica la possibilità di spostare il lavoratore risultato positivo su una mansione non considerata soggetta alla restrizione (eludendo il già citato art. 42), con conseguente mantenimento dell’occupazione, è possibile anche assistere a singolari interpretazioni normative che prevedono il licenziamento del soggetto risultato positivo, in barba all’obbligo di mantenimento del posto di cui sopra.

Il tutto nell’evidenza, ormai provata statisticamente, della bassissima percentuale di soggetti positivi e, soprattutto, della praticamente nulla incidenza della positività sull’incremento di eventi infortunistici.

Invitiamo chi fosse interessato a discutere e contribuire su questi temi ad una verifica delle iniziative utili e necessarie ad evitare che queste situazioni continuino a peggiorare.

per contatti:

claudio.mendicino@fastweb.net – angelo.pedrini@tiscali.iT

lì, 18 gennaio 2013

Print Friendly, PDF & Email